IL BIANCO SUONO DELLA PAURA

Un film di Roberto Di Vito, la libertà e la forza del filmmaking italiano in un dvd Cecchi Gori Home Video

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Luigi Mariotti non vede, ha la bocca tappata da un bavaglio, si sveglia e non sa dove si trova, né perché è ridotto così. Poi scopre di essere stato rapito, ma i criminali forse hanno sbagliato persona… Piastrelle bianche di un interno fatiscente, una Panda bianca di nessuno, la tuta bianca da jogging di Luigi… Il lungometraggio del filmmaker Roberto Di Vito si intitola “Bianco” e simboleggia molti aspetti psicologici della vita del protagonista ma anche di ognuno di noi. Il film, prodotto, diretto, scritto, montato e musicato da Di Vito (autore, lo ricordiamo, di corto e mediometraggi premiati come “Sole” o “Ai confini della città”, ma anche di pregevoli backstage come, per esempio, quello del celebre spot diretto da Federico Fellini per l’allora Banca di Roma), il film “Bianco” dicevamo, è un angoscioso ma anche sarcastico viaggio mentale nelle ossessioni del vivere. Un ‘mestiere’ verso il quale Luigi non dimostra molta dimestichezza. Ha paura, Luigi, di vivere pienamente e anche di partire (fuggire? sognare? evadere?). “Non ho i soldi” recita la sua voce fuori campo che si rivolge  a se stesso ma anche a noi, mentre il suo corpo incaprettato, imbavagliato e bendato dai rapitori si dibatte (ma neanche tanto) su uno squallido materasso in una stanza vuota e sporca, dove l’uomo è stato confinato. Ha paura del buio, Luigi, come un bambino cresciuto male, quel bambino di otto anni che soffia sulle sue candeline in uno dei ricordi che affiorano alla mente del giovane adulto nel corso degli interminabili giorni di reclusione.

Roberto Di Vito realizza, con questo suo nuovo film, “Bianco”, un ritratto universale delle paure, senza cavalcare generi specifici del cinema, sfiora l’horror (che è soprattutto psicologico), anche grazie ad un uso accorto di musiche da lui composte ed eseguite, tese a sospendere un’adrenalina che non esplode mai ma scorre sottotraccia, inquietante. E le immagini di paesaggi stupendi, di luoghi esotici, di acque rinfrescanti e liberatorie, di voli di uccelli migratori che fanno da apertura e finale dell’opera non sono che ‘gabbie’ nelle quali Luigi si rifugia. Vorrebbe ma non può, non è in grado di lasciare quel passato, come torna a recitare la sua stessa voce fuori campo, che non ha mai davvero vissuto. E il futuro, anzi il presente (meglio essere prudenti), ha il volto incappucciato (un po’ kafkianamente) del se stesso che gli appare in una sorta di incubo, come pure il sembiante levigato delle maschere (ovviamente bianche) dei suoi ‘rapitori’.

Spiccano, nel nutrito cast, lo stralunato ed efficace protagonista Igor Mattei; Giovanni Piccirillo, Massimiliano Fedeli, Claudia Borioni (un amore forse vissuto forse solo sognato). Ottimo esempio di cinema pensato e costruito dove quel che conta è, come scriveva Wim Wenders, “l’idea di partenza”. E qui il protagonista, a suo modo, ‘parte’ comunque, portandoci con sé nei nostri luoghi più oscuri.

di Riccardo Palmieri


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