GENITORI ITALIANI TRA LAVORO E FAMIGLIA

imagesIn Italia le riforme non si susseguono ma si accavallano tra loro, senza che alle stesse sia dato il tempo minimo necessario per dimostrare la loro potenziale utilità o inutilità, senza consentire né ai Cittadini né allo stesso Legislatore di comprendere quali siano in concreto i punti su cui eventualmente intervenire di nuovo e, soprattutto, senza capire e interpretare i cambiamenti della società che devono essere invece regolati tramite la legislazione.

E così si va avanti a tentoni. Un continuo “costruire” e “demolire” che non fa altro che disorientare tutti e rendere tutti più precari. Purtroppo, questo frenetico modus legiferandi non risparmia alcun settore, nemmeno quello volto alla tutela della famiglia, della maternità in generale e della lavoratrice madre in particolare.

Eppure, non lo dimentichiamo, l’art. 31 della Costituzione statuisce, con straordinaria dolcezza ed estrema chiarezza, che la Repubblica: “protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù.” E ciò perché i nostri padri costituenti sapevano bene che “una Costituzione democratica capace di rompere col passato e di indirizzarsi al legislatore futuro, deve riconoscere l’importanza sociale della maternità, intesa quest’ultima come diritto per la donna, per la madre, per i bambini ma anche come necessità per lo Stato italiano” (Nadia Gallico Spano nella seduta dell’Assemblea Costituente del 17 aprile 1947, p. 2960 – 2961).

Tornando ai nostri giorni, le disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità (raccolte principalmente nel D. Lgs. 151/2001) sono state di recente modificate dalla c.d. “Riforma Fornero” (art. 4, commi 24-26, L. 92/12) che ha introdotto, in via sperimentale per gli anni 2013-2015, alcune misure a sostegno della genitorialità.

Naturalmente, come prevedibile, l’attuale Governo ha già dichiarato di voler “smantellare” la riforma Fornero, prospettando anche nuove forme di tutela per le lavoratrici in maternità (per esempio: estensione del beneficio alle lavoratrici parasubordinate anche in caso di mancato versamento dei contributi da parte del datore; istituzione di un credito d’imposta a favore delle lavoratrici, anche autonome, con figli minorenni e al di sotto di una soglia di reddito familiare; incentivi diretti a favorire la flessibilità dell’orario; incremento dei servizi per la prima infanzia).

Il risultato è che ad oggi le misure introdotte nel 2012 sembrano trovarsi, seppur per ragioni diverse, in una situazione di stallo, mentre quelle prospettate dall’attuale Governo sono ancora distanti dallo loro entrata in vigore.

Vediamo ora le innovazioni portate dalla “Riforma Fornero.”

Con l’obiettivo di “promuovere una cultura di maggiore condivisione dei compiti di cura dei figli all’interno della coppia per favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, il nostro Legislatore ha previsto il congedo obbligatorio per i padri lavoratori dipendenti ed i voucher per i servizi baby sitting.

Sebbene entrambe le misure, così come in concreto modulate, siano manifestamente inidonee a raggiungere il commendevole obiettivo prefissato, esse sono state salutate (forse, con un entusiasmo mal riposto) come un primo ed importante segnale di cambiamento culturale, nonché di avvicinamento agli standard definiti nella Direttiva CE 2010/18/EU in materia di congedo parentale.

La prima novità consiste nell’obbligo per il padre di astenersi dal lavoro, entro i cinque mesi dalla nascita del figlio, per un giorno (“we can be Heroes, just for one day”, cantava David Bowie nel 1977) ed entro il medesimo periodo può astenersi per ulteriori due giorni, anche continuativi, a condizione che la madre rinunci a due giorni del suo periodo di astensione obbligatoria. Per questi giorni di astensione viene riconosciuta un’indennità giornaliera a carico dell’Inps pari al 100% della retribuzione. Il padre lavoratore deve però dare, con un preavviso di almeno quindici giorni, comunicazione in forma scritta al datore di lavoro dei giorni prescelti per astenersi dal lavoro. Rispetto alla normativa precedente ciò che cambia è l’obbligatorietà. Infatti, prima della riforma, in occasione della nascita del figlio, il lavoratore avrebbe potuto assentarsi dal lavoro in via facoltativa, facoltà che rappresentava spesso un deterrente della richiesta al datore di lavoro. Sicuramente, trattandosi ora di un obbligo il lavoratore ne potrà godere a pieno diritto.

La seconda misura consiste, invece, nella corresponsione da parte dell’Inps di voucher per l’acquisto di servizi di baby-sitting di cui la madre lavoratrice può usufruire, in alternativa al congedo parentale, per un massimo di sei mesi. Tale agevolazione – che forse, se diversamente modulata, avrebbe potuto rivelarsi utile a limitare il crescente fenomeno di abbandono del posto di lavoro da parte delle neo-mamme – è così citata all’interno del decreto legge: “Al fine di promuovere la partecipazione femminile al mercato del lavoro, si intende disporre l’introduzione di voucher per la prestazione di servizi di baby-sitting. Le neo mamme avranno diritto di chiedere la corresponsione di detti voucher dalla fine della maternità obbligatoria per gli 11 mesi successivi in alternativa all’utilizzo del periodo di congedo facoltativo per maternità. Il voucher è erogato dall’Inps. Tale cifra sarà modulata in base ai parametri Isee della famiglia.”

Nello specifico, la madre può richiedere un voucher di 300 euro al mese da destinare al pagamento di una baby sitter ovvero un contributo asilo (in tal caso, la retta mensile dell’asilo è pagata direttamente dall’Inps sempre a condizione che il bambino frequenti una delle strutture selezionate dall’Istituto).

Occorre precisare che le risorse stanziate per tale agevolazione ammontano a 20 milioni di euro all’anno e che, pertanto, l’Inps ammette le richiedenti sulla base di specifiche graduatorie che danno priorità ai nuclei familiari con ISEE (indicatore della situazione economica equivalente) di valore inferiore.

Peraltro, sebbene tale misura sia stata prevista per gli anni 2013-2014, a tutt’oggi l’Inps non ha provveduto ad emanare il bando nazionale per il 2014 e ciò fa dubitare che tale contributo sarà confermato anche per quest’anno.

La legge 24 dicembre 2012, n. 228 ha poi introdotto, sempre in recepimento della citata Direttiva 2010/18 UE, un’altra importante novità, ovvero la possibilità di frazionare ad ore la fruizione del congedo parentale, rinviando tuttavia alla contrattazione collettiva di settore il compito di stabilire le modalità di fruizione del congedo stesso su base oraria, nonché i criteri di calcolo della base oraria e l’equiparazione di un determinato monte ore alla singola giornata lavorativa.

L’attuazione concreta di tale norma sembra al momento ancora in stand by, nonostante che il Ministero del Lavoro (rispondendo all’interpello di Cgil, Cisl e Uil n. 25 del 22 luglio 2013) abbia chiarito che possono essere i contratti collettivi di 2° livello a stabilire modalità di fruizione del congedo parentale a ore.

In definitiva, nessun reale, serio e concreto contributo è stato introdotto in questi anni a sostegno della genitorialità.

L’Italia rimane così ancora distante dagli altri Paesi Europei: basti pensare, per esempio, alla Svezia e alla Francia che riconoscono un periodo di congedo di paternità obbligatorio rispettivamente di 30 giorni e 11 giorni.

Ma il problema principale che affligge il nostro Paese non è (forse) quello della tutela delle mamme lavoratrici. Infatti, in Italia i servizi utili alla famiglia sono in generale scarsi. Ci limitiamo qui ad evidenziare come gli asili nido siano solo 3008 e pratichino orari e costi poco conciliabili con orari di lavoro e stipendi dei genitori.

Dall’insieme di tali problematiche discende il rischio di ripensarci troppe volte prima di mettere al mondo un altro figlio, sicché il nostro Paese resta ancorato ad una natalità bassissima che ne fa una delle nazioni più vecchie al mondo: appena 1,2 figli per donna.

Dottoressa e Professoressa Cristina Siciliano


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