EFFETTI DELLA NUOVA “BRUTTA SCUOLA”

Il numero degli scioperi del 2015, riferito ai primi nove mesi, confrontati con l’analogo periodo del 2014, fa balzare la scuola al primo posto in questa classifica delle proteste. Certo il settore scuola non è da solo, il trasporto pubblico e la raccolta dei rifiuti raggiungono anch’essi cifre notevoli.

scuola-infanziaPer la scuola fine 2014 – primi nove mesi 2015 è stato l’anno della riforma Renzi, cosiddetta della Buona Scuola, che a dispetto del nome ha creato molti malumori, se gli scioperi sono saliti da 16 a 45.Ma i più partecipati in realtà sono stati tre, quello del 24 aprile, quello del 5 maggio e poi lo sciopero degli scrutini a fine anno scolastico. Appuntamenti cui hanno fatto seguito fiaccolate, notte dei lumini, letture in piazza, manifestazione varie. Tutti eventi collaterali che non rientrano nelle statistiche ufficiali ma che certamente hanno contrassegnato il 2015. Nonostante le proteste, la Buona Scuola è diventata legge pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 13 luglio 2015 e applicata dall’a.s. 2015/16. Ancora non completato il piano straordinario di immissioni in ruolo che essa contiene, ancora non rodati i “superpoteri del Preside”, ancora allo stato larvale le deleghe assegnate al Governo, gli effetti della riforma si traducono al momento solo in una grande confusione nella gestione delle scuole, alla quale il Ministero fatica a tener dietro. Rimane da capire quanto del disagio della scuola sia arrivato alla società dopo questi scioperi. Abbiamo infatti l’impressione che se al cittadino medio si chiede quali sono gli scioperi che maggiormente “infastidiscono”, la risposta sarebbe “quello dei trasporti e quello della sanità”. In questo contesto si inserisce “la due giorni sulla crisi dell’università italiana”, pensata dalla Cgil scuola, la sua federazione della conoscenza, che ha la forza  di mettere insieme i dati usciti negli ultimi due anni, da più fonti, sul mondo accademico. La collana di numeri offre in modo immediatamente leggibile un quadro drammatico dell’università italiana. Drammatico, sì, seguendo le cifre liberate in fila. In dieci anni, dal 2004 al 2014, gli iscritti al primo anno sono passati da 338.482 a 260.245 (dati Miur). Anche se nelle ultime due stagioni la flessione media è rallentata e nelle università del Nord le matricole sono tornate a crescere, la perdita all’università di 78 mila diciannovenni, che sono il 23 per cento di una generazione, uno su quattro, è un dato da emergenza nazionale. E poi, qui parla lo Svimez, il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’istruzione terziaria è sceso al Nord al 58,8 per cento e al Sud al 51,7, le cifre più basse dell’ultima decade. L’Ocse ci ricorda, e Francesco Sinopoli della segreteria nazionale della Cgil lo sottolinea, che il tasso d’ingresso all’università in Italia è al 40 per cento quando tra le nazioni sviluppate è al 60: “Siamo l’unico paese in cui gli iscritti all’università diminuiscono”.

È necessario andare avanti per comprendere lo stato dell’arte. Siamo 32esimi su 37 paesi Ocse come aliquota di laureati: il 21 per cento. In Corea del Sud nel 2011 i laureati erano il 64 per cento quando trent’anni prima non raggiungevano il 10. Se restiamo in Europa, a proposito di laureati in rapporto con la popolazione in età di lavoro, peggio di noi c’è solo la Romania. Tutto questo accade mentre la spesa pubblica è aumentata del 10,7 per cento (tra il 2011 e il 2014) mentre gli investimenti destinati all’università sono scesi dall’1,19 per cento alo 0,95. Da noi, e in altri quattro paesi europei, i tagli di bilancio nel settore sono stati superiori al 5 per cento.
I docenti degli atenei italiani nel 2013 erano 55 mila, con un calo complessivo del 13 per cento in dieci anni. E nell’ultima decade – questo è il dato straordinario – sono stati espulsi 97 ricercatori precari ogni cento. Nel 2014 a fronte di 2.324 pensionamenti sono stati attivati solo 141 contratti a tempo determinato (fonte Ricercarsi). Nel Sud in sei anni si è perso il 38 per cento delle posizioni per un dottorato. Infine l’Andisu, l’associazione che si occupa del diritto allo studio, ha portato all’uditorio il suo carico ricordando che in Italia lo Stato spende sul diritto allo studio 600 milioni quando in Germania l’intervento è da 4 miliardi e in Francia da 3,6.
Il quadro è chiaro:  servono finanziamenti pubblici, il ritorno dell’autonomia degli atenei spazzata dalla riforma Gelmini, il blocco delle scelte premiali nel finanziamento ordinario.La legge  107/15 quindi non risolve i problemi della scuola anzi li aggrava perché è priva di un orizzonte strategico per innalzare i livelli d’istruzione, garantire un’effettiva gratuità degli studi, migliorare la qualità dell’offerta formativa, a partire dal sud, valorizzare il lavoro, superare il precariato, riformare i cicli scolastici, innovare profondamente la didattica e affermare una valutazione narrativa e non punitiva. Occorre costruire relazioni e coalizioni per promuovere dal basso una idea diversa e alternativa di scuola e università all’altezza delle domande e dei sogni delle nuove generazioni. Intanto la FLC-CGIL continuerà a lavorare per favorire l’unità delle organizzazioni sindacali e di tutte le soggettività, coniugando la rivendicazione del rinnovo del contratto nazionale in tutti i settori pubblici con il diritto a una istruzione di qualità. Inoltre sosterrà la mobilitazione degli studenti del 9 ottobre per cambiare radicalmente la legge sulla brutta scuola e per costruire una via di uscita dalla crisi dell’università.

Dottoressa Professoressa Cristina Siciliano


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