PARITÀ DI GENERE E IMPEGNI QUOTIDIANI

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Dopo quarant’anni di occupazione, un uomo avrà dedicato al lavoro retribuito 89.000 ore della sua vita e quasi 18.000 ai lavori famigliari, una donna 66.000 ore al lavoro retribuito e quasi 58.000 a quello per la famiglia. Nel complesso, tra i due generi vi è una differenza a carico della donna di quasi 17.000 ore di lavoro, che suddivise in giornate di 8 ore e 30 minuti di impegno complessivo, qual è quello medio delle donne occupate, dà 5,4 anni lavorati in più dalla donna rispetto all’uomo. Hanno dunque ragione i sindacati dei lavoratori quando, tutti in coro, si oppongono alla proposta ventilata dal Governo di equiparare l’età di pensionamento delle donne a quella degli uomini portandola dai 60 ai 65 anni qualora non si siano ancora raggiunti i 40 anni di contributi? Apparentemente sì, sempre che si sia disposti a porre il lavoro per il mantenimento della famiglia sullo stesso piano di quello retribuito, e il suo valore sociale venga considerato altrettanto meritevole dei benefici pensionistici nonostante non sia prevista alcuna contribuzione previdenziale a sua tutela. Sembra potersi affermare che le regole previste rispettano le differenze di genere nell’impegno orario complessivo quando si consideri anche il lavoro per la famiglia. Vi sono però due argomenti che contrastano con questa conclusione, oltre al fatto già sottolineato che non è previsto alcun meccanismo finanziario, né ad accumulazione, né a ripartizione, per erogare i benefici pensionistici a fronte degli anni lavorati per il mantenimento della famiglia, benefici per i quali va dunque trovata una copertura nella fiscalità generale. In primo luogo, l’impegno orario dei lavoratori e delle lavoratrici per la propria famiglia è evidentemente diverso a seconda della struttura di questa (single; coppia senza figli; coppia con figli; monogenitore) e della fase che sta attraversando (figli piccoli o adolescenti; “nido vuoto”; partner, genitori o suoceri bisognosi di assistenza; ecc.). Sempre considerando solo gli occupati con un lavoro retribuito, è evidente  come l’impegno casalingo della donna occupata vari molto in funzione del suo ruolo, della forma della famiglia in cui vive e del numero dei figli cui deve provvedere, mentre per gli uomini il tempo dedicato all’impegno domestico è pressoché lo stesso in tutte le situazioni, oltre che di molto inferiore. Ma allora, se si dovesse considerare il lavoro per la famiglia nel computo degli anni per la pensione sarebbe doveroso tenere conto delle diverse condizioni famigliari delle lavoratrici, senza di che una single tutta dedita al lavoro retribuito verrebbe a usufruire del beneficio aggiuntivo corrispondente a 1 ora e 18 minuti al giorno in più rispetto alla media generale, e a più di 2 ore rispetto alla madre di tre o più figli, creando così evidenti disparità all’interno dello stesso genere. Inoltre, il calcolo risulterebbe complicato dal fatto che la maggior parte delle donne durante la loro vita economicamente attiva passano attraverso diversi ruoli e situazioni, che implicano un maggiore o minore impegno famigliare e, quindi, un diverso computo orario figurativo ai fini pensionistici. E, infine, perché limitarsi a considerare il contributo differenziale delle donne durante la loro vita lavorativa? Il loro impegno nelle cure domestiche e in quelle di assistenza al coniuge e ai parenti precedono e soprattutto seguono il periodo di lavoro, anche grazie al maggior tempo di cui dispongono una volta conclusosi l’impegno lavorativo. La seconda considerazione è di natura più politica, nel senso di indirizzo verso il miglioramento della società in cui viviamo. In un confronto tra i quindici paesi europei che hanno partecipato al progetto Hetus (Harmonised European Time Use Studies), non solo la differenza nei tempi di lavoro retribuito tra uomini e donne che hanno un’occupazione sono i più elevati in Italia (1 ora e 44 minuti al giorno in più per gli uomini), ma anche la differenza tra i generi nel tempo giornaliero dedicato alle cure domestiche è massimo nel nostro Paese, con ben 2 ore e 43 minuti in più a carico delle donne occupate. Sono squilibri tra i generi che ci tengono lontani dal resto dell’Europa e, in particolare, dai Paesi nordici e perfino dalla Germania, in cui nel passato le donne restavano confinate nelle tradizionali “3 K” (Kinder, Küche und Kirche; bambini, cucina e chiesa), ma dove ora l’impegno casalingo differisce invece tra occupati e occupate di meno di 1 ora e 20 minuti. Giustificare la diversa età di pensionamento in base alla tradizionale differenza di attività domestica tra donne e uomini rischia di cristallizzare una situazione che dinamicamente sembra invece avviata a ridurre gli squilibri mano a mano che le generazioni più giovani entrano nel mercato del lavoro e formano le nuove famiglie. Già dal confronto tra la rilevazione del 2012-2013 con quella del 1988-1989 emerge infatti una convergenza tra i tempi maschili e femminili: ad esempio, il tempo di lavoro famigliare in più per le donne occupate e madri di famiglia rispetto ai corrispondenti maschi si è ridotto dalle 4 ore e 28 minuti della fine degli anni Ottanta alle 3 ore e 40 minuti dell’inizio di questo secolo, mentre si avvicinano tra loro anche i tempi del lavoro esterno di occupati e occupate. Oltre che un doveroso adeguamento ai principi di parità imposto dalla sentenza della Corte di Giustizia europea del 13 novembre 2008, l’equiparazione dell’età di pensionamento tra lavoratori e lavoratrici potrebbe dunque costituire anche una spinta alla modernizzazione nei confronti dei ruoli di genere all’interno dei nuclei famigliari.

di Dottoressa Professoressa Cristina Siciliano


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