Corso Multimediale di Economia Politica (microeconomia)

L’economia politica non e’ mai stata cosi’ semplice

Introduzione 
al corso di economia politica più semplice della storia

Gli appunti di Economia Politica devono essere in primo luogo semplici, chiari e ultra comprensibili. Devono essere nuovi, aggiornati, e relazionati ad esempi reali. Parole come Internet e commercio elettronico sono completamente sconosciute nel mondo accademico, in questo non ci sono quasi mai riferimenti al mondo reale. Le curve, le formule, le frasi ad effetto dei più grandi economisti, che vengono riciclate da ormai duecento anni con le solite costruzioni logico-matematiche, sembrano dei monumenti fissi ed immutabili quando al contrario “Tutto Scorre” ed è in eterno mutamento.

Bisogna dunque spiegare l’Economia in maniera diversa, e certamente più avvincente, in modo tale da guadagnarsi la stima dello studente.
L’Economia è oramai diventata un mostro spietato ed invincibile, dalle molte forme, con la capacità di controllare e decidere le sorti di tutto ciò che esiste.

Arte, letteratura, musica, diritto sono forse discipline libere da ogni implicazione di carattere socioeconomico? Certamente No. Ma è proprio per questo allora che un corso deve anche essere profondo. Deve contenere tutto il patrimonio culturale che ci portiamo dietro e deve indurre lo studente alla riflessione, al pensiero, alla pura astrazione filosofica; in modo tale che quest’ultimo sia in grado un giorno di utilizzare questi strumenti metodologici per il buon governo delle cose (inteso non come cieca accumulazione della ricchezza ma piuttosto come equilibrato sviluppo del benessere complessivo).

In questa sede si tenterà il più possibile di seguire questi tre criteri guida, e spero che il risultato sia apprezzato dagli studenti, i quali saranno in primo luogo i giudici di quet’opera.
Ci scusiamo in via preventiva per i numerosi errori tecnici e di stile che si possono incontrare. Questi sono dovuti essenzialmente alla fretta e soprattutto al grande entusiasmo con il quale è stato affrontato questo lavoro che essendo propedeutico al materiale multimediale è stato scritto in tempi cortissimi (la notte o il fine settimana nei frammenti di tempo disponibile); spero dunque che il lettore sia comprensivo. Le dispense scritte devono essere considerate come poco più di una bozza a supporto delle lezioni multimediali.

Ora, visto che tutti dedicano la propria opera a qualcuno, mi toccherà anche a me farlo, e con il permesso dei lettori non mi priverò certo di questa posa.

A Eugenia e Nastya
Roma, Agosto 2000
Ultima edizione Marzo 2013

 

 

1.1 Storia dei sistemi economici

Il nostro sistema economico si basa sul meccanismo del mercato in base al quale la produzione, i prezzi ed i redditi dipendono dal confronto tra domanda ed offerta. Ma i sistemi economici non si sono sempre basati sul principio del mercato, anche se il mercato come luogo fisico di scambio è sempre esistito fin dall’origine dei tempi.

Ma andiamo con ordine. Tanto per iniziare il termine economia deriva dal greco ed è composto da oikia, che significa casa, e da nomos che significa regola. Il termine alla lettera significa gestione degli affari domestici, ma più in senso lato può essere inteso come sistema di sopravvivenza.

Finora, nel corso della storia, si sono verificati tre grandi sistemi economici o modi di produzione:

·  Il sistema antico

·  Il sistema feudale

·  Il sistema capitalista
 
Il sistema economico antico vero e proprio ha origine con la nascita del surplus, ovvero la quota di prodotto eccedente il livello di sussistenza. Gli uomini del paleolitico inizialmente cacciavano il giusto necessario per sfamare se stessi e la propria prole. Ma in seguito all’introduzione dell’agricoltura iniziarono a produrre più di quello che era il fabbisogno necessario alla sussistenza della collettività. Questo ha fatto sì che una parte della produzione fosse destinato ad altri scopi.
Da questo momento inizia la divisione degli uomini in classi poiché questa parte di plusprodotto viene utilizzata per alimentare una nuova classe di uomini, impiegata non direttamente nella produzione agricola, ma nelle prime opere di irrigazione dei fiumi, nei primi e rudimentali strumenti di amministrazione e controllo, nell’arte della guerra e nelle attività artistiche e divinatorie. Questa seconda classe prende il sopravvento sulla prima. Si sviluppano le religioni, iniziano le guerre e con esse nascono gli schiavi.
Il fattore produttivo chiave in questa prima fase del sistema economico è il fattore Lavoro. Il modo di produzione si basa infatti sullo sfruttamento dei lavoratori. C’è una classe dominante di guerrieri e sacerdoti, improduttiva, e c’è una classe di lavoratori, il più delle volte schiavi o in semilibertà, dedita alla produzione dei beni. Con la caduta dell’impero romano il sistema economico subisce un cambiamento: viene meno il sistema di controllo e repressione centralizzato e basato sulla potenza degli eserciti. Gli uomini diventano liberi, ma sono ora costretti a lavorare per i proprietari terrieri. Il fattore produttivo chiave in questa seconda fase è la Terra. Il feudatario concede parti delle sue terre ad altri piccoli feudatari che a loro volta la concedono ai contadini o servi della gleba, i quali pur essendo liberi hanno l’obbligo di produrre quote di prodotto per i proprietari terrieri.
Se nell’età feudale il controllo da parte del potere militare viene meno come si realizza la repressione delle masse? Secondo molti storici c’è un altro strumento di potere e coercizione: la religione. Ma con la scoperta dei nuovi metodi di aratura e  con l’incremento demografico il sistema subisce ulteriori mutazioni. L’economia chiusa dell’età medioevale, basata sulla sola produzione agricola, inizia ad aprirsi alla produzione artigianale. Nasce una nuova classe sociale: la borghesia. Con le scoperte geografiche si sviluppano i commerci, fino a quando con le innovazioni tecnologiche (macchina a vapore, telaio,..) questa nuova classe, che basa la sua ricchezza sullo scambio e sull’accumulazione del denaro, prende il sopravvento sull’aristocrazia terriera. Inizia il sistema basato sul Capitale, in poche parole: sul potere della moneta. Nascono le industrie, e i contadini che lasciano le campagne per abitare nelle città diventano i cosiddetti proletari. In questa fase del sistema economico il fattore produttivo caratteristico è il Capitale, la somma iniziale di denaro da investire per l’inizio dell’attività economica. Chi ha in mano il capitale può costruire le industrie, attuali strutture di produzione che producono i beni in base alle richieste del mercato.

Ma non finisce certamente così. Lo spettacolo continua. Il sistema capitalista non è eterno, prima o poi sarà sostituito come lo sono stati i precedenti. C’è chi ha azzardato affrettate previsioni immaginando sistemi alternativi come ad esempio il Comunismo. Previsioni che fino ad esso si sono rivelate erronee in quanto gli uomini sono e saranno sempre divisi in classi. Ma c’è anche la possibilità di un sistema nuovo. Basato questa volta non sullo sfruttamento del lavoro e non sulla disponibilità di capitale, ma sulla qualità e sul grado di specializzazione del lavoro. Il terzo millennio forse concederà ai posteri un sistema più equo, più efficiente, un sistema dove gli uomini non patiranno la fame e dove non avranno il bisogno di guerreggiare tra loro. Fattore chiave in questa fase di transizione è l’Informazione, attraverso la quale si possono pianificare le attività e si può valorizzare il fattore lavoro, risorsa primaria del sistema economico. Questo quarto modo di produzione, che qualcuno identifica nella futura Economia Digitale, già oggi ha lanciato le sue prime rudimentali fondamenta nel sistema attuale. Ma c’è anche chi sostiene che l’Economia Digitale non sia altro che uno dei tanti modi con il quale il capitalismo si ricicla, come fosse un virus mutante che a seconda delle innovazioni tecnologiche muta forma per restare in vita. Ai posteri l’ardua sentenza. A noi per il momento lo studio dell’Economia Politica.

2.1 Il sistema di mercato

Il sistema di mercato si basa come già detto sul libero scambio di beni e servizi. Ma cosa si intende per mercato? Per mercato non si intende tanto il luogo fisico dello scambio quanto la condizione di produzione. Nei precedenti sistemi economici la produzione non dipendeva dalle decisioni dei consumatori e dei produttori ma piuttosto dalle decisioni di una stretta minoranza di soggetti che detenevano il controllo politico e militare. Ad esempio, nel sistema feudale i contadini producevano i beni agricoli sotto il controllo dei proprietari terrieri. Tali beni non avevano un prezzo, venivano consumati direttamente o al limite scambiati con prodotti artigianali. Nel sistema di mercato la determinazione della produzione e dei prezzi dipende da due forze: la domanda e l’offerta. E’ dal confronto tra queste due forze che si determinano i prezzi e i beni da produrre. Un sistema alternativo a quello di mercato, accennato in precedenza, è quello comunista (ex URSS, Cuba, Cina Comunista, Corea del Nord). Tale sistema si basa sulla pianificazione a monte della produzione in base ad un determinato programma economico. In un sistema pianificato i beni ed i servizi da produrre vengono decisi dagli organi politici, e spesso hanno un prezzo stabilito dallo Stato.

3.1 La domanda

Tutti quanti hanno un’idea di cosa possa essere la domanda di un bene. Questa è la richiesta del bene da parte dei consumatori che richiederanno una data quantità di bene regolandosi in base al prezzo. Ma ci sono anche altri fattori che influenzano la domanda come ad esempio il reddito disponibile, i gusti dei consumatori e la qualità del prodotto.

Illustriamo graficamente una curva di domanda. Per far ciò dobbiamo ricorrere, come del resto faremo per tutto il proseguimento del testo, al piano cartesiano. Nella Figura 1.1 è illustrato un piano cartesiano dove sulle ordinate si misura il prezzo del prodotto e sulle ascisse la quantità domandata. Sul piano è rappresentata una classica curva di domanda dove la quantità domandata di un bene è funzione del suo prezzo. In realtà nel nostro caso non si tratta di una vera e propria curva ma di una retta. Nella terminologia economica con il termine curva si indica genericamente qualsiasi tipo di linea sul piano cartesiano.

Introduciamo l’argomento con un semplice esempio, condotto con numeri casuali. Supponiamo di dover disegnare la curva di domanda di un bene di una determinata collettività di persone, ad esempio motociclette, avendo a disposizione ad esempio tre coppie di dati rilevati attraverso un sondaggio.

P 10.000

9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000

 

 

 

 

 

 

                   
     

A

             
                   
                   
          B        
                   
                   
                C  
                D  
                   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

00 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000 Figura 1.1 Curva di Domanda

Ad un prezzo di 8.000, la collettività domanderebbe 200 motociclette. Il punto A sul piano rappresenta infatti questa situazione. Ma se il prezzo fosse di 5.000, la collettività domanderebbe 500 motociclette (punto B). Se invece il prezzo fosse di 2.000 i consumatori domanderebbero 800 unità (punto C). Le tre situazioni individuate sul piano cartesiano costituiscono tre punti della domanda del bene.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

 

Unendo i punti possiamo ottenere una semplice curva di domanda (D) che indica appunto la relazione tra prezzi e quantità domandata dai consumatori. La curva di domanda ha pendenza negativa in quanto al diminuire dei prezzi aumenta la quantità domandata. E’ opportuno non commettere il seguente errore quando si vuole rappresentare una curva di domanda: si dice che dato un certo prezzo si ha una determinata quantità domandata e non viceversa. Questo per via del fatto che è la quantità a dipendere dal prezzo, e non il contrario. Il prezzo è la variabile indipendente mentre la quantità è la variabile dipendente, che è funzione (dipende) del prezzo.

Per il proseguimento del testo sarà opportuno comprendere molto bene il funzionamento del piano cartesiano e il fatto che una delle due variabili è indipendente mentre l’altra varia in funzione delle variazioni della prima. Cerchiamo ora di dare una spiegazione più approfondita sulla ragione per la quale al diminuire dei prezzi aumenta la quantità domandata di un bene. In primo luogo, si ha un Effetto sostituzione nei confronti degli altri beni. Se il prezzo della cioccolata diminuisce mentre quello della nutella resta invariato, i consumatori avranno vantaggio ad aumentare il consumo di cioccolata e a diminuire quello di nutella che è un bene sostituto. Si ha in poche parole una sostituzione nell’acquisto dei beni. Supponiamo che inizialmente una tavoletta di cioccolata costi 2 mentre un barattolo di nutella costi ugualmente 2. I consumatori ad esempio, comprerebbero 1000 tavolette e 1000 barattoli di nutella. Ma se il prezzo delle tavolette scendesse a 1, i consumatori troverebbero più conveniente nella scelta tra cioccolata e nutella, aumentare il consumo di cioccolata e ridurre quello di nutella.

Si ha poi un Effetto Reddito in quanto al diminuire del prezzo di un bene, a parità di spesa, è possibile acquistare una quantità maggiore del bene. Se, ad esempio, ad un prezzo di 2 i consumatori compravano 1000 tavolette, ora ad un prezzo di 1 potrebbero acquistarne 2000 spendendo la stessa cifra.

Effetto Reddito ed Effetto Sostituzione fanno si che al diminuire del prezzo di un bene aumenti la quantità richiesta. Nell’ultimo capitolo studieremo più approfonditamente i due effetti ed in particolare il tema della domanda del consumatore nei confronti dei beni di consumo .

La quantità domandata di un bene non è però in funzione solamente del prezzo. In realtà come abbiamo accennato prima, la quantità richiesta dai consumatori dipende anche da altre variabili come il reddito, i gusti dei consumatori e i prezzi degli altri beni. Si esprime infatti che.

Q = f (P, Y, G, Px)

dove Q è la quantità domandata, P il prezzo, Y il reddito dei consumatori, G i gusti dei consumatori e Px il livello dei prezzi degli altri beni. Il termine f significa “funzione”, ovvero che q dipende da P,Y,G e Px.
Nel piano cartesiano abbiamo considerato solamente due variabili, prezzi e quantità, considerando le altre date. Ritornando al grafico 1.1, possiamo dire che lacurva D costituita dai punti ABC è la curva di domanda della quantità rispetto al prezzo, essendo dati il reddito, i gusti dei consumatori ed i prezzi degli altri beni.

Cosa succederebbe ora alla curva di domanda se variasse uno di questi tre elementi? La risposta è semplice: si sposterebbe tutta la curva. Ad un prezzo di 8.000 i consumatori con un dato reddito acquisterebbero 200 motociclette. Ma se il loro reddito aumentasse, al medesimo prezzo di prima, acquisterebbero una maggiore quantità di bene ad esempio 400 (punto A’). Si passerebbe dunque dal punto A al punto A’ e la curva di domanda D costituita dai punti ABC si sposterebbe verso destra. La curva D’, costituita dai nuovi punti A’B’C’ rappresenterebbe appunto la nuova curva di domanda in seguito all’aumento del reddito (Figura 2.1).

Se il reddito diminuisse succederebbe il contrario; la D si sposterebbe verso sinistra anziché a destra. Lo stesso ragionamento può farsi per un cambiamento dei gusti dei consumatori od un cambiamento dei prezzi degli altri beni. Se ad esempio cambiassero improvvisamente i gusti a favore del bene per l’effetto di una massiccia azione pubblicitaria, la curva di domanda si sposterebbe verso destra, ovvero al prezzo di 5.000 non richiederebbero più 200 ma richiederebbero una quantità superiore. Lo stesso accadrebbe se i prezzi dei beni sostituti aumentassero. In questo caso, se aumentasse il prezzo degli scooter o delle automobili, ci sarebbe un effetto sostituzione a favore della motociclette.

 

P

10.000 9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000

C’

D’

 

 

 

 

 

                   
    A   A’          
                   
                   
          B   B’    
               
                   
                C  
                D  
                   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

00 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000

Q

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 2.1 Spostamenti della Curva di Domanda

Occorre specificare infatti che ci possono essere due tipi di beni: beni sostituti o succedanei e beni complementari. I beni sostituti come dice il termine sono beni sostituibili come ad esempio il the ed il caffè, la cioccolata e la nutella, il burro e la margarina, i biscotti e le fette biscottate e nel nostro caso motociclette ed autovetture o automobili tipo smart. Mentre al contrario i beni complementari vanno consumati congiuntamente; il cacao è un bene complementare del latte, come la benzina è complementare alle automobili.

E’ facilmente comprensibile che l’aumento del prezzo della benzina non abbia alcun effetto sulla quantità domandata di margarina. Lo stesso non potrebbe dirsi se invece aumentasse il prezzo del burro; in questo caso diventerebbe più vantaggioso acquistare margarina. Nel caso dei beni complementari il discorso si inverte in quanto l’aumento della quantità domandata di un bene comporta un conseguente aumento della quantità del bene complementare (più latte = più cacao) e non viceversa come

nel caso di beni sostituti (più cioccolata = meno nutella).

Ora siamo in grado di fare una importante distinzione: spostamenti sulla curva e spostamenti della curva. Nel primo caso ci si sposta lungo la curva, da A a B (Figura 1.1), quando il prezzo varia. Nel secondo caso, quando i prezzi non variano, ma ad esempio variano le altre componenti che influenzano la domanda (reddito, gusti, prezzi degli altri beni), si sposta l’intera curva di domanda verso destra o verso sinistra (Figura 2.1).

4.1 L’Offerta

L’Offerta è la quantità di un bene che le imprese produrranno a un determinato prezzo. Anche in questo caso la quantità offerta dipende dal prezzo, e non viceversa. All’aumentare del prezzo la quantità offerta aumenta poiché gli imprenditori sono incentivati a produrre quei beni il cui prezzo garantisce un margine di profitto più elevato. Se per via del caro benzina o di una legge che limiti l’utilizzo di automobili, si avesse ad esempio un esplosione della domanda di biciclette, il prezzo andrebbe alle stelle e tantissime imprese si metterebbero a produrre biciclette attratte dal buon prezzo. In linea generale accettiamo per buona la dipendenza tra quantità offerta e prezzo; nei capitoli che seguono capiremo meglio la natura di tale relazione studiando i costi delle imprese.

La figura 3.1 indica una classica curva di offerta dove all’aumentare del prezzo di un bene aumenta la quantità offerta. Come per la quantità domandata anche la quantità offerta dipenderà da altri fattori come i costi dei fattori produttivi (salario, costo del capitale, costi delle materie prime) e il progresso tecnico. Anche in questo caso un cambiamento degli altri fattori comporterà uno spostamento della curva. L’imprenditore terrà infatti in considerazione non solo il prezzo del bene ma anche i costi dei fattori produttivi e le tecniche di produzione in quanto il suo scopo ultimo è quello del profitto. Cerchiamo di fare un esempio analogo a quello che abbiamo condotto per spiegare gli spostamenti della curva di domanda. Ad un prezzo di 2.000 le imprese produrrebbero 200 motociclette (punto D).

Ma se il prezzo aumentasse a 8.000 le imprese produrrebbero ad esempio 800 unità (punto G). La Curva O, costituita dai punti DFG, indica appunto la relazione tra prezzo dato e conseguente quantità offerta (Figura 3,1). Se i costi delle materie prime o del lavoro diminuissero o se ci fossero nuove e migliori tecniche di produzione (progresso tecnico) la curva di offerta si sposterebbe verso destra (Figura 4.1). Ad un prezzo di 2.000 i produttori, anziché produrre 200 unità, produrrebbero ad esempio 400 unità. Se infatti i costi di produzione si dimezzassero, con lo stesso costo si potrebbe produrre una quantità doppia indipendentemente dalla variazione del prezzo di mercato. Lo stesso accadrebbe se si introducesse una innovazione tecnologica che consentisse di raddoppiare il prodotto con la stessa quantità di fattori produttivi. Anche in questo caso si può esprimere che:

Q = f (P, C, PT)

ovvero che la quantità offerta dipende dal prezzo del bene, dai costi dei fattori di produzione (C) e dal progresso tecnico (PR).

P 10.000

9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000

00 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000

 

 

                   
              G O  
                   
                   
        F          
                   
                   
  D                
                   
                   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

O’

00 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000

Figura 3.1 Curva di Offerta

P 10.000

9.000

 

 

 

O

G

 

 

F

F’

 

D

D’

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8.000     G’ 7.000
6.000
5.000

4.000 3.000 2.000 1.000

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Figura 4.1 Spostamenti della curva di Offerta

5.1 L’equilibrio del mercato

Abbiamo fin qui assunto che la quantità domandata e quella offerta dipendano dal prezzo (fermo restando tutti gli altri fattori). Il prezzo si determinerà automaticamente in base all’uguaglianza tra domanda ed offerta. Se il prezzo fosse troppo alto si avrebbe un eccesso di offerta (i produttori producono più di quello che i consumatori domandano), i prodotti rimarrebbero invenduti ed i produttori pur di vendere abbasserebbero il prezzo. Nel caso contrario, quando il prezzo fosse troppo basso, si avrebbe un eccesso di domanda (i consumatori domandano più di quello che è stato offerto) e i prodotti andrebbero a ruba. I produttori aumenterebbero di conseguenza il prezzo del bene.

P

10.000 9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000

00 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000

 

 

 

 

 

 

                  O
                   
                   
                   
                   
               
                   
                   
                   
                  D

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 5.1 Equilibrio del Mercato

Q

Nella figura 5.1 sono rappresentate le due curve. Si vede chiaramente che se il prezzo iniziale fosse 8.000 la quantità offerta sarebbe 800 mentre quella domandata 200. In questo caso si avrebbero 600 motociclette invendute. Per vendere la quantità invenduta i produttori abbasserebbero il prezzo. Ma fino a che punto scenderebbe il prezzo? Fino a quel livello che assicurerebbe ai produttori di vendere completamente tutta la loro produzione. Se invece il prezzo iniziale fosse 2.000 la quantità offerta sarebbe 200 mentre quella domandata 800 ed accadrebbe perfettamente il contrario. Ci sarebbe un eccesso di domanda di 600. In questo caso, essendo state prodotte solamente 200 unità con una richiesta di 800, si metterebbe in moto una piccola guerra tra consumatori per aggiudicarsi le motociclette con la conseguenza di un aumento dei prezzi da parte dei produttori. Anche in questo caso il prezzo salirà fino al punto in cui l’eccesso di domanda finirà. Prezzo di equilibrio e quantità di equilibrio si determinano dunque con il confronto tra domanda ed offerta nel punto di incrocio, e qualora il mercato si trovasse in una situazione di disequilibrio (eccesso di domanda o di offerta) ci sarebbe un meccanismo automatico capace di assicurare l’uguaglianza tra domanda ed offerta fino al punto di incrocio (punto E)

 

Chi avrà seguito attentamente sarà in grado di dire cosa succederà al prezzo ed alla quantità di equilibrio se ad esempio ci fossero degli spostamenti delle due curve; il meccanismo non cambia in quanto il prezzo di equilibrio si troverà sempre in corrispondenza dell’incrocio delle due nuove curve.

 

P p2

p*

p1

DO A Eccesso di Offerta D

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E

 

C

 

Eccesso di Domanda

 

 

 

 

 

 

 

B

 

 

 

 

 

 

q1 q* q2

Q

 

Figura 6.1 Equilibrio del mercato

Nella Figura 6.1 è rappresentato il grafico standard che tutti i manuali riportano. Il grafico è perfettamente identico a quello della figura 5.1. Le uniche differenze si hanno nella simbologia. Con p* viene indicato il prezzo di equilibrio (nel nostro esempio 5.000) e con q* viene indicata la quantità di equilibrio (nel nostro esempio 500). Ad un prezzo p2 superiore la quantità offerta q2 è maggiore di quella domandata q1 e si ha dunque un eccesso di offerta. Ad un prezzo p1 inferiore la quantità domandata q2 è superiore a quella offerta e si ha dunque un eccesso di domanda. Nella realtà di solito la determinazione di prezzi e quantità avviene con il meccanismo del libero mercato che è appunto quello che abbiamo appena descritto, ma ci sono dei mercati in cui ad esempio il prezzo è fissato in altro modo (ad esempio per legge). In questo caso se tale prezzo non coincide con quello di mercato si ha un disequilibrio tra la quantità offerta e quella domandata.

 

2.1 La produttività marginale e la legge dei rendimenti decrescenti

All’inizio del primo capitolo si è fatto cenno sui diversi fattori produttivi e sul ruolo che hanno giocato nelle diverse fasi della storia economica. Abbiamo anche auspicato l’importanza che giocherà in futuro l’informazione, quarto fattore produttivo dopo il lavoro, la terra ed il capitale. Ma ognuno di questi fattori se impiegato senza gli altri non avrebbe alcun valore.

Gli agricoltori non possono produrre senza la terra o gli operai senza le macchine, così come terra e capitale sarebbero improduttive senza il lavoro. Ogni fattore produttivo ha un suo specifico apporto nel processo produttivo che dipende dalle diverse quantità dei fattori impiegate nel processo. Entriamo subito nell’argomento con un semplice esempio che chiarisce le relazioni di produttività intercorrenti tra i fattori produttivi. Anche in questo caso i numeri sono puramente casuali. Consideriamo due fattori, terra e lavoro, e supponiamo che uno dei due sia fisso mentre l’altro sia variabile. Nel nostro caso supponiamo una quantità fissa di terra, ad esempio 100 metri quadrati , ed un numero variabile di lavoratori da impiegare progressivamente su questo tratto di terra.

Si suppone che il primo lavoratore impiegato nel processo produttivo produca 40 barbabietole. Ma se i lavoratori fossero due, produrrebbero ad esempio 90 barbabietole e l’apporto aggiuntivo del secondo sarebbe costituito da 50 barbabietole. In media i due avrebbero prodotto 45 barbabietole a testa.

Inizialmente, l’aggiunta di nuovi lavoratori nel processo produttivo può comportare rendimenti crescenti, in quanto la produttività dei lavoratori aggiuntivi può crescere. Ciò può dipendere dal fatto che i lavoratori possono riuscire a raggiungere una migliore organizzazione dividendosi i compiti. La specializzazione fa si che il prodotto cresca più che proporzionalmente rispetto all’aumentare del numero di lavoratori impiegato. Ma successivamente, prevale quasi sempre la legge dei rendimenti decrescenti secondo la quale, all’aumentare della quantità di un fattore produttivo abbinato ad un altro fattore fisso, il prodotto aggiuntivo generato dall’unità addizionale di fattore è via via decrescente.

Supponiamo di aggiungere progressivamente lavoratori in quei 100 metri quadrati di terra. Se fossero tre i lavoratori lavorerebbero ancora bene e produrrebbero ad esempio 130 barbabietole. Ma quando i lavoratori diventano quattro cinque o sei iniziano a sovrautilizzare quel piccolo pezzo di terra che più di un certo numero di barbabietole non può dare. Qualora poi i lavoratori superassero la decina ci sarebbero addirittura problemi logistici e i lavoratori si darebbero le zappate sui piedi non essendoci più spazio. Si capisce intuitivamente che dopo un certo numero di lavoratori, all’aumentare di questi il prodotto aggiuntivo che ciascuno apporta è via via decrescente fino ad essere addirittura negativo. Il centesimo lavoratore aggiunto nei 100 metri quadrati di terra non solo non sarà in grado di produrre ma sarà di intralcio per gli altri e il suo apporto sarà deleterio. Nella tabella che segue cerchiamo di sintetizzare quanto detto. Nella prima colonna figura il numero dei lavoratori via via inseriti nel processo di produzione, nella seconda il prodotto totale che tutti insieme hanno generato, nella terza il prodotto aggiuntivo o marginale che indica quello che è l’apporto dell’ultimo lavoratore aggiunto nel processo produttivo e nella quarta il prodotto medio (prodotto totale/numero di lavoratori) che indica quanto in media ha prodotto un singolo lavoratore. Il termine marginale è un sinonimo di aggiuntivo.

TABELLA 1.2

In sintesi, il prodotto marginale non sarebbe altro che l’incremento del prodotto totale che si ottiene aggiungendo una unità in più di fattore produttivo (nel nostro caso un lavoratore in più) combinato con un altro fattore produttivo fisso (nel nostro caso la Terra).

Nel grafico sottostante riportiamo i valori del prodotto marginale del lavoro (PmL) e si vedrà che questo, salvo il primo tratto iniziale, è decrescente per la legge dei rendimenti decrescenti di cui abbiamo discusso in precedenza. La figura indica che dal secondo lavoratore in poi il prodotto marginale diminuisce. In questo grafico come i lettori avranno capito la variabile indipendente è il numero di lavoratori (L) mentre il prodotto marginale (PmL) è la variabile dipendente. In altri termini il grafico si legge così: dati tre lavoratori il prodotto marginale (ovvero l’apporto del terzo lavoratore) è 40, dati quattro lavoratori il prodotto marginale è 30.

Quello che illustriamo in questi grafici così come in quelli successivi sono semplicemente degli esempi teorici cosicché i numeri sono puramente casuali (nessuno può dire quante barbabietole produrranno 3 lavoratori in un campo di 100 metri quadrati, ma verosimilmente si può affermare che all’aumentare dei lavoratori il prodotto marginale, qualunque esso sia, salvo un primo tratto è decrescente).

La Figura 2.2 è la stessa che di solito propongono la maggior parte dei manuali, in alcuni di questi non figura però il primo tratto crescente della curva del prodotto marginale (Pm) in quanto non si prende in considerazione la possibilità che all’inizio

 

 

 

 

Lavoratori

 

Prodotto totale

 

Prodotto marginale Prodotto medio

 

1

 

40

 

40

 

40

 

2

 

90

 

50

 

45

 

3

 

 

130

 

40

 

 

43,3

 

 

4

160

 

 

30

40

 

 

5

 

180

 

20

 

36

 

6

 

190

 

 

10

 

31,7

 

prevalgano rendimenti crescenti i in seguito alla migliore specializzazione e allocazione delle risorse.

PmL 50

40

30

20

10

PmL

L

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0
123456

Figura 1.2 Il prodotto marginale di un fattore produttivo

Nella Figura 2.2 si vede chiaramente che da un certo punto in poi il prodotto marginale inizia a decrescere (nel nostro esempio a partire dal terzo lavoratore).
Prima di tale punto si hanno rendimenti crescenti in quanto l’aggiunta di nuovi lavoratori comporta un incremento del prodotto totale più che proporzionale in quanto il prodotto dell’ultimo lavoratore è maggiore di quello dei precedenti. Successivamente prevale la legge dei rendimenti decrescenti decrescente, in quanto l’aggiunta di nuovi lavoratori comporta un incremento del prodotto totale meno che proporzionale in quanto il prodotto dei lavoratori aggiuntivi è inferiore a quello dei precedenti. Il prodotto medio indica quanto in media produce un lavoratore. Il prodotto medio (PM) dipenderà ovviamente dal prodotto marginale.

Nel grafico che abbiamo illustrato si vede che il prodotto marginale interseca il prodotto medio nel suo punto massimo. Questo dipende dalla relazione intercorrente tra PM e Pm. Supponiamo che uno studente all’inizio prenda di seguito i seguenti voti: 25, 26, 27, 28. Man mano che supera gli esami la sua media cresce. Dopo il primo esame la media sarà ovviamente 25, dopo il secondo sarà 25,5, dopo il terzo sarà 26 e così via. Fintanto che i voti aggiuntivi (marginali) crescono la media crescerà, ma la media crescerà comunque fintanto che i voti marginali saranno superiori alla media anche se questi sono decrescenti.

 

 

 

 

 

Pm, PM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PT

PM Pm

L

PT

 

 

 

 

 

 

 

 

L

Figura 2.2 Prodotto marginale, prodotto medio e prodotto totale di un fattore produttivo

Ma quando invece i voti aggiuntivi (marginali) scendono sotto la media, la media inizierà a scendere. Nel nostro caso fintanto che il prodotto marginale è superiore al prodotto medio, il prodotto medio crescerà, quando il prodotto marginale scende sotto la media, il prodotto medio inizierà a scendere. Ed è proprio per questo che il prodotto marginale interseca il prodotto medio nel suo punto di massimo.

Nella mente del lettore si deve creare la seguente associazione: è come se il prodotto marginale fosse associato ai voti dell’ultimo esame mentre il prodotto medio è come se potesse essere associato alla media degli esami sostenuti. Abbiamo indicato con il termine Pm il prodotto marginale di un fattore produttivo, ma si può specificare con PmL che il prodotto marginale si riferisce al fattore lavoro (L), con PmT al fattore terra (T) e con PmK al fattore capitale (K). Infatti, lo stesso discorso che è stato condotto sul prodotto marginale dei lavoratori può essere fatto sul prodotto marginale di qualsiasi altro fattore produttivo. Anche il prodotto marginale della terra o del capitale può essere rappresentato da una curva prima crescente poi decrescente (ricordiamo ancora una volta che alcuni manuali rappresentano solo una curva decrescente), in quanto la legge dei rendimenti decrescenti è valida per tutti i fattori. Nella seconda parte della figura è rappresentato il prodotto totale (PT). L’andamento del prodotto totale dipende dall’andamento del prodotto marginale, in quanto il prodotto totale non è altro che la somma dei prodotti marginali di ciascun lavoratore. Nel tratto in cui il prodotto marginale è crescente, il prodotto totale aumenta in maniera crescente (più che proporzionalmente). Nel secondo tratto, quando il prodotto marginale inizia a decrescere, il prodotto totale cresce in maniera decrescente (meno che proporzionalmente). Quando il prodotto marginale diventa negativo, il prodotto totale inizia a decrescere perché l’aggiunta di nuovi lavoratori è dannosa nel processo produttivo. Il prodotto marginale interseca dunque il prodotto medio nel suo punto massimo. I due grafici sono stati divisi da due linee tratteggiate che evidenziano appunto la relazione tra prodotto marginale e prodotto totale.

2.2 Rendimenti di scala costanti, crescenti e decrescenti

Abbiamo visto che aggiungendo ad un fattore fisso unità addizionali di un fattore variabile, il prodotto marginale di queste unità addizionali è via via decrescente (salvo un primo tratto); questa è la legge dei rendimenti decrescenti. Ora ci si chiede se tale legge continui ad esser valida qualora si aumentassero in modo proporzionale i due fattori produttivi. Un lavoratore produce 40 barbabietole su di uno spazio di 100 metri quadrati, 100 lavoratori su di uno spazio di 100 metri quadrati sarebbero probabilmente impossibilitati a produrre, ma 100 lavoratori su di uno spazio di 10.000 metri quadrati sarebbero forse capaci di produrre 100 volte tanto quello che produce un lavoratore su 100 metri quadrati. E’ lecito pensare infatti che se i fattori produttivi aumentano entrambi della stessa proporzione anche il prodotto totale aumenta della stessa proporzione. In questo caso si parla di rendimenti costanti di scala quando all’aumentare della scala produttiva (aumento proporzionale di tutti i fattori) il prodotto totale aumenta della stessa proporzione. Ma questo non è il solo caso; ci possono essere anche casi di rendimenti crescenti di scala o decrescenti di scala quando al variare della scala produttiva il prodotto varia più o meno che proporzionalmente.

3.2 La curva di domanda di un fattore produttivo

Ritorniamo al nostro esempio dei lavoratori che lavoravano sui 100 metri quadrati di terra supponendo che la terra sia proprietà di un redditiere.
Il proprietario terriero per produrre avrà bisogno di una certa quantità di lavoratori che percepiranno un dato salario. Supponiamo che il prodotto marginale giornaliero dei lavoratori sia quello indicato nella Tabella, che il salario giornaliero (W) sia di 30 lire e che il prezzo di una barbabietola sia di 1 lira. Quanti lavoratori domanderà il proprietario terriero? Cerchiamo di ragionare; il primo lavoratore produce 40 barbabietole per un valore di 40 lire (40 * 1 lira) e costa al proprietario 30 lire, il secondo produce 50 e costa 30, il terzo produce 40 e costa 30, il quarto produce 30 e costa 30, il quinto produrrebbe 20 e costerebbe 30, il sesto produrrebbe 10 e costerebbe sempre 30. Chiunque capirebbe che all’imprenditore converrà impiegare lavoratori fino a quando il valore del loro prodotto aggiuntivo (marginale) sarà superiore od uguale al salario. Nel nostro caso l’imprenditore impiegherà 4 lavoratori in quanto il quinto lavoratore produce meno di quello che costa al proprietario terriero mentre i primi quattro producono più di quello che costano (l’ultimo in verità produce un valore esattamente identico a quello che è il suo salario ma si considera assunto). In altre parole, se il proprietario impiegasse anche il quinto ed il sesto lavoratore, avrebbe su questi delle perdite, in quanto quest’ultimi verrebbero pagati più di quello che avrebbero prodotto. Se al contrario impiegasse una quantità di lavoratori inferiore si priverebbe della rendita generata dall’aggiunta di lavoratori la cui produttività marginale è superiore al salario. L’imprenditore impiegherà lavoratori fino al punto in cui il valore monetario del prodotto marginale è uguale al salario, nel nostro caso essendo il prezzo del prodotto uguale ad 1 si ha che l’imprenditore impiegherà lavoratori fino a quando il prodotto marginale del lavoro (PmL) sarà uguale al salario (W).

 

PmL, W 50

40

30

20

10

W

PmL = DL

L

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0
123456

Figura 3.2 Curva di domanda del lavoro

Nella Figura 3.2 si vede chiaramente che, essendo il salario di 30, l’imprenditore impiegherà fino a 4 lavoratori perché i lavoratori dopo il quarto hanno un prodotto marginale inferiore al salario. Cosa succederebbe se il salario aumentasse da 30 a 40 ? L’imprenditore dovrebbe licenziare il quarto lavoratore per impiegarne solamente tre, mentre se il salario scendesse da 30 a 20 troverebbe conveniente impiegare anche il quinto lavoratore. Il lettore attento avrà certamente notato che il tratto decrescente

 

 

del prodotto marginale del lavoro costituisce la curva di domanda del lavoro da parte del proprietario terriero per ciascun livello del salario. Se il salario infatti fosse 40, la quantità domandata di lavoro sarebbe di 3 lavoratori, se il salario fosse di 30 sarebbe di 4, se il salario fosse di 20 sarebbe di 5 e così via. Nella figura 4.2 è rappresentato il grafico standard che tutti i manuali riportano con l’unica differenza che al posto del prodotto marginale fisico (Pm, numero unità prodotte) ci si riferisce al valore monetario del prodotto marginale (VPm, numero unità prodotte moltiplicate per il prezzo di vendita). La curva del valore del prodotto marginale del lavoro coincide con la curva di domanda di lavoratori da parte dell’imprenditori (si noti che in alcuni manuali non si fa distinzione tra prodotto marginale e valore del prodotto marginale. Con il termine prodotto marginale si intende direttamente il secondo)

VPmL, W

w* W VPmL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

l*

4.2 La remunerazione dei fattori produttivi

L

 

Figura 4.2 Curva di domanda del lavoro

Ora siamo anche in grado di determinare la distribuzione del reddito totale tra lavoratori e proprietario terriero. La figura 5.2 non è altro che una replica della figura 3.2. L’unica differenza è che ora il prodotto marginale dei lavoratori può essere rappresentato dai quadratini sotto la curva. Il rettangolo composto dai quadratini in colore chiaro rappresenta la parte del reddito che va ai lavoratori sotto forma di salari, mentre la parte sopra, che è la differenza tra il prodotto marginale ottenuto ed il salario pagato ai lavoratori costituisce la remunerazione del proprietario terriero. La rendita del proprietario terriero si ottiene infatti dalla differenza tra il prodotto totale e i salari totali pagati ai lavoratori.

La Tabella che segue chiarirà quanto detto. Nella seconda colonna è indicato il prodotto marginale, ovvero il prodotto generato dall’ultimo lavoratore impiegato, nella terza colonna è indicato il salario costante di ciascun lavoratore mentre nella quarta è indicata la rendita che percepisce il proprietario terriero a fronte di ciascun lavoratore impiegato. Se l’imprenditore impiegasse tre lavoratori il prodotto totale sarebbe 130 (40+50+40), la somma totale che dovrebbe erogare ai lavoratori in forma di salari sarebbe 90 (30+30+30), la rimanente somma sarebbe il suo guadagno o rendita pari a 40(10+20+10). In altre parole il nostro proprietario terriero ha guadagnato 10 sul primo lavoratore (quest’ultimo ha prodotto 40 ed è stato da lui pagato 30), 20 dal secondo e 10 dal terzo.

PmL, W

50

40

30      W 20

10

0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Rendita

Salari

PmL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

123456 Figura 5.2 Distribuzione del reddito

Si vede chiaramente dalla tabella che al proprietario terriero converrà impiegare lavoratori fino a quando il loro prodotto marginale è superiore od uguale al salario pagato. Nel nostro caso al proprietario terriero converrà impiegare quattro lavoratori (anche se in questo caso elementare impiegare il quarto è indifferente essendo la sua rendita marginale uguale a 0). Del prodotto totale di 160 generato da quattro lavoratori, 120 andrà ai lavoratori mentre 40 andrà al nostro proprietario terriero. Nel grafico i rettangoli in colore chiaro indicano la remunerazione dei lavoratori (4 * 30=120) mentre la parte sopra, in colore scuro, indica la remunerazione del proprietario terriero.

Guardando ancora una volta la tabella 2.2 si capisce immediatamente che il prodotto marginale non può essere diverso dal salario, se questo accadesse il proprietario terriero avrebbe fatto male i conti avendo assunto troppi o troppo pochi lavoratori. Diamo ora una spiegazione della distribuzione del reddito guardando la figura 5.2. Il primo lavoratore produce 40, nel grafico il suo prodotto è rappresentato dai quattro quadratini sotto il punto della curva del prodotto marginale. Ma il primo lavoratore viene pagato solamente 30, ed è come se il proprietario ricevesse quattro quadratini e ne desse tre al lavoratore. L’ultimo quadratino rappresenta infatti la rendita del proprietario terriero. Il secondo lavoratore produce un prodotto di 50, rappresentato da cinque quadratini, ma percepirà sempre un salario di 30. Su quest’ultimo il proprietario terriero percepirà dunque una rendita marginale di 20, rappresentata dagli ultimi due quadratini.

TABELLA 2.2

PmL, W

Lavoratori Prodotto marginale Salario Rendita marginale

 

1

 

40

 

30

 

10

 

2

 

50

 

30

 

20

 

3

 

40

 

30

 

10

 

4

 

 

30

 

30

 

0

5

 

 

20

 

30

 

-10

 

6

 

10

 

30

 

-20

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

           
  Profitti      
       
  Salari       PmL
         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

W

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 6.2 Distribuzione del reddito tra lavoratori ed imprenditori

L

Se al posto del proprietario terriero ci fosse un imprenditore e al posto dei 100 metri quadrati ci fosse un certo stock di capitale (ad esempio macchinari) il ragionamento non cambierebbe: l’imprenditore impiegherebbe lavoratori fino a quando il loro prodotto marginale generato in combinazione con il capitale fosse superiore od uguale al salario. Graficamente si avrebbe lo stesso risultato solamente che si parlerebbe di profitti e non di rendita. Nel grafico, la parte sopra i salari rappresenterebbe la remunerazione dell’imprenditore proprietario di capitale (Figura 6.2).

5.2 Il mercato del lavoro

Abbiamo visto in precedenza che il tratto decrescente della curva del prodotto marginale del lavoro coincide con la curva di domanda di lavoratori da parte di proprietari terrieri ed imprenditori. Ma ciò presupponeva un dato salario di mercato che nel nostro caso era 30. Come si determina tale salario?

Il ragionamento è molto simile a quello illustrato nel primo capitolo dove abbiamo introdotto la domanda e l’offerta di un bene.
Nel mercato del lavoro l’offerta è la quantità di lavoro che i lavoratori offrono in relazione ad un determinato salario di mercato mentre la domanda è la quantità di lavoro richiesta dagli imprenditori (che come abbiamo visto coincide con la curva del prodotto marginale dei lavoratori impiegati) in relazione ad un dato salario di mercato. Il mercato del lavoro funziona in maniera analoga al funzionamento del mercato di un bene con la differenza che in questo caso si parla di salario (al posto di prezzo) e di quantità di lavoratori (al posto di quantità del bene).

Il salario si determina dunque in base all’uguaglianza tra domanda e offerta di lavoro. Dopo aver studiato da cosa dipende la domanda di lavoro (cioè dal prodotto marginale del lavoro) dobbiamo capire da cosa dipende la curva di offerta di lavoro. Per lavorare è necessario un incentivo; e tale incentivo non può essere che il salario. La curva di offerta di lavoro è analoga alla curva di offerta di un bene: all’aumentare del salario aumenterà la quantità di lavoro offerta. Il salario si determinerà dunque dal confronto tra domanda ed offerta di lavoro, nello stesso modo in cui si determina il prezzo nel mercato dei beni (Figura 5.1, Capitolo 1). Nella figura 7.2 è riassunta la situazione del mercato del lavoro nel nostro ipotetico esempio della collettività di coltivatori di barbabietole. Se il salario iniziale fosse di 50, il nostro proprietario terriero sarebbe disposto ad impiegare 2 lavoratori (infatti la produttività marginale del secondo lavoratore è 50); ma ad un salario di 50 sarebbero disposti a lavorare 6 lavoratori. In questo caso ci sarebbe un eccesso di offerta di lavoro. I quattro lavoratori esclusi (in quanto il proprietario ne assumerebbe solo 2) pur di lavorare sarebbero disposti a percepire un salario inferiore. La pressione dei quattro esclusi comporterebbe immediatamente una diminuzione del salario, da 50 a 30. Ora, con un salario di 30 ci sarebbero 4 lavoratori disposti a lavorare e l’offerta di lavoro sarebbe di 4 lavoratori. In questo caso ci sarebbe equilibrio tra domanda ed offerta di lavoro. Se inizialmente il salario fosse invece di 10, il proprietario sarebbe disposto ad impiegare 6 lavoratori, ma solamente 2 accetterebbero tale salario e ci sarebbe così carenza di lavoratori. Il proprietario successivamente, per incentivare i lavoratori, aumenterebbe il salario fino al livello di equilibrio (nel nostro caso 30).

 

W

50

30

10

OL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

246

DL

L

 

 

Figura 7.2 Equilibrio nel mercato del Lavoro

Così come avveniva per il mercato dei beni, anche nel mercato del lavoro il salario e il livello di occupazione (numero di lavoratori impiegati) si determina in base all’equilibrio tra domanda ed offerta di lavoro. Nella figura 8.2 è rappresentato il grafico standard che tutti i manuali riportano. Quando il salario è inferiore a quello di equilibrio si ha carenza di lavoro, mentre quando il salario è superiore a quello di equilibrio si ha eccesso di offerta di lavoro.

Si capisce immediatamente che se una delle due curve dovesse spostarsi, ci sarebbe un nuovo punto di equilibrio con un nuovo salario ed una nuova quantità di lavoratori impiegati. Supponiamo che ci sia un’innovazione tecnologica capace di aumentare la produttività marginale di ogni lavoratore, in questo caso il quarto lavoratore produrrebbe 40 anziché 30 mentre il quinto produrrebbe 50 anziché 40 e così via. La curva della produttività marginale del lavoro si sposterebbe verso l’alto così come la curva di domanda di lavoro (che in pratica coincide con la prima). Il nuovo equilibrio si avrebbe in corrispondenza di un salario più alto con un livello di occupazione più alto (Figura 9.2). Cosa succederebbe invece se aumentasse l’offerta di lavoro? L’occupazione aumenterebbe ma diminuirebbe il salario di equilibrio come si può semplicemente verificare spostando verso destra la curva di offerta del lavoro.

Questo semplice modello dei coltivatori e del proprietario terriero è chiaramente estendibile al mercato del lavoro di una collettività estesa. In questo caso l’offerta di lavoro è costituita dalla quantità di lavoro offerta dalla totalità dei lavoratori mentre la domanda di lavoro è la richiesta di lavoratori da parte della totalità degli imprenditori e proprietari terrieri.

W

w2

w*

w1

OL

 

 

 

 

Eccesso di Lavoro

 

 

Carenza di Lavoro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

l1 l* l2

DL

L

 

Figura 8.2 Equilibrio nel mercato del Lavoro

 

W

w’* w*

OL

DL

l* l’*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

DL’

L

 

 

 

 

Figura 9.2 Spostamento della curva di domanda del lavoro per effetto del progresso tecnologico

6.2 Curva di offerta di lavoro piegata all’indietro

Alcuni manuali di Economia Politica quando introducono il tema della curva di offerta di lavoro spesso discutono sul fatto che ci possa essere un tratto dove questa piega all’indietro. Un semplice esempio chiarirà il problema. Nella figura è illustrata una curva di offerta di lavoro dove all’aumentare del salario aumenta la quantità di lavoro che i lavoratori saranno disposti ad offrire. Supponiamo che la curva della figura indichi il numero di ore che un lavoratore è disposto ad offrire dato un certo salario orario di mercato. Se ad esempio il salario fosse di 10.000 all’ora egli ad esempio lavorerebbe 8 ore, ma se il salario raddoppiasse probabilmente lavorerebbe anche 12 ore al giorno visto il grande incentivo. La curva di offerta è dunque crescente ma non indefinitamente. C’è infatti un tratto in cui l’offerta di lavoro piega all’indietro. Supponiamo infatti che il salario passi da 20.000 all’ora a 30.000, in questo caso il lavoratore invece di lavorare di più lavorerebbe forse di meno, in quanto giudicherebbe sufficientemente elevato il suo reddito. E’ possibile che a quel salario ritorni a lavorare 8 ore al giorno avendo in complesso un reddito giornaliero uguale alla situazione precedente in cui lavorava 12 ore (8 * 30.000 = 12 * 20.000).

Nel tratto crescente della curva di offerta di lavoro prevale l’effetto sostituzione, cioè il lavoratore nella scelta tra le due possibilità, reddito o tempo libero, sostituirà tempo libero con più reddito. All’aumentare del salario il lavoratore si priverà infatti di tempo libero per ottenere più reddito lavorando di più. Ma quando il reddito è già abbastanza elevato prevale l’effetto reddito che consente al lavoratore di lavorare di meno. Nel grafico della Figura 10.2 si suppone che fino al salario w1 prevalga l’effetto sostituzione, e che oltre prevalga l’effetto reddito e la curva pieghi all’indietro.

 

 

W

w1

 

 

 

 

 

 

L1

L

 

Figura 10.2 Curva di offerta di lavoro piegata all’indietro di solito, comunque, il tratto in cui la curva piega all’indietro è molto in alto, in quanto corrisponde ad un livello salariale molto elevato, ed in pratica la curva di offerta può essere anche disegnata come una curva sempre crescente.
La curva che abbiamo disegnato nell’esempio si riferisce ad un’unica persona ma il discorso non cambia quando si vuole disegnare la curva di offerta di lavoro di una collettività. In questo caso basta sommare la quantità di ore che sono disposte a lavorare le persone che compongono la collettività per ogni salario (in altre parole se i lavoratori della collettività fossero 10, ad un salario di 20.000 si avrebbe un offerta complessiva di 120 ore). Di solito quando si parla di curva di offerta di lavoro sulle ordinate si indica il salario e sulle ascisse si indica il numero di lavoratori che sono disposti a lavorare a quel salario e non la quantità di ore complessive (per ottenere infatti il numero di lavoratori basta dividere il numero di ore complessive per l’orario medio di lavoro cosicché il ragionamento non cambia); per il proseguo continueremo dunque a far riferimento al numero di lavoratori e non alla quantità di ore.

7.2 Teorie e dottrine sulla distribuzione del reddito

E’ forse questo, come si capisce immediatamente, uno dei temi più caldi di tutta l’Economia Politica. E qui si ritorna ad ataviche discussioni ideologiche circa la lotta di classe che ha caratterizzato fin dall’origine il sistema attuale, come del resto i sistemi passati.

I concetti sulla distribuzione del reddito che abbiamo illustrato nei grafici precedenti si basano sull’assunto che la quota di reddito spettante ad ogni fattore dipenda dalla sua produttività marginale.

Questa teoria è diventata nel corso del 900 la teoria dominante, che ancora oggi resiste salvo attacchi da molteplici fronti.
Questa teoria è detta anche “marginalista”, in quanto pone l’enfasi sull’ultima quantità considerata (in questo caso il prodotto dell’ultima unità di fattore produttivo impiegato). In sostanza, il salario sarebbe uguale al prodotto marginale dell’ultimo lavoratore impiegato nel processo produttivo (paragrafo 3.2). Mentre la rendita e il profitto si determinano dalla differenza tra il prodotto ottenuto e i salari erogati ai lavoratori (Tabella 2.2). Ma ci chiediamo se il profitto o la rendita si possano ottenere sempre come differenza.

Tentiamo di capovolgere l’esempio del paragrafo 3.2 immaginando che siano i lavoratori ad esser padroni del processo di produzione e che siano loro a richiedere gli altri fattori. I lavoratori possono ad esempio affittare le macchine o la terra. In questo caso i lavoratori affitteranno gli altri fattori (terra e capitale) fino a quando il loro prodotto marginale sarà uguale al costo, nello stesso identico modo in cui il proprietario terriero richiedeva lavoratori per il suo pezzo di terra. In questo modo salari, rendite e profitti si determinano in base alla loro produttività. Nel grafico che segue è illustrato il caso dei lavoratori imprenditori che affittano terra o capitale. In questo caso sono i salari dei lavoratori ad essere determinati come differenza tra il prodotto ottenuto e la remunerazione erogata al proprietario degli altri fattori.

Secondo la teoria marginalista la remunerazione dei fattori produttivi dipende dunque dalla produttività marginale dell’ultima unità di fattore impiegata.

 

Pm, P

 

 

 

           
  Salari        
       
  Profitti-Rendite    

Pm

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

P

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

K

Figura 12.2 Distribuzione del reddito nel caso dei lavoratori imprenditori che affittano capitale o terra

Inoltre si considera il lavoro come un fattore non diverso dagli altri. Tutti i fattori sono acquistabili da tutti i proprietari degli altri fattori e non esiste distinzione tra i vari attori economici, siano essi lavoratori, proprietari terrieri o imprenditori.

Queste costruzioni economiche portano a due conseguenze chiave. La prima è che il profitto dell’imprenditore dipende dalla produttività del capitale (al contrario di quello che sosteneva Marx che interpretava il profitto come uno sfruttamento del lavoratore), la seconda è che non esiste una distinzione netta tra lavoratori (nel senso di proletari) e proprietari.

La teoria marginalista, peraltro molto elegante, articolata in semplici ma sintetiche formule è il frutto dei cambiamenti economici subiti dal sistema economico occidentale. Gli autori più significativi sono Walras, Marshal, Wicksell e Clark , a quest’ultimo si devono le costruzioni grafiche illustrate nei paragrafi precedenti. Questi autori scrivono verso la fine dell’800, momento in cui il sistema capitalista decolla, e fase in cui le scoperte tecnologiche supportano l’enfasi assegnata al positivismo economico. La trasformazione dal modo di produzione ancora agricolo della prima metà dell’800 al sistema industriale vero e proprio dei primi del 900 ha comportato una evoluzione del pensiero economico dominante a difesa del nuovo sistema.

I primi pensatori economici, che vivono tra la fine del 700 e la prima parte dell’800, tra i quali Smith, Ricardo e Marx, chiamati anche “Economisti Classici”, avevano però un approccio totalmente differente, molto più problematico e conflittuale. Per loro il profitto era considerato come un sovrappiù, come la parte di reddito che rimaneva al proprietario una volta pagati i salari.
Essendo i salari determinati in base al livello di sussistenza (livello minimo per la sussistenza del lavoratore) e dunque fissi, il profitto si determinava sempre come differenza tra il valore della produzione e la somma dei salari pagati. In altre parole è come se si avesse una torta da dividere tra lavoratori e proprietari. Ed essendo stabilita al livello minimo la quota dei lavoratori, la quota restante andava ai proprietari. E se la torta fosse cresciuta, i lavoratori avrebbero continuato a percepire sempre la stessa fetta mentre i proprietari avrebbero percepito una fetta maggiore. Secondo la teoria classica il valore di una merce prodotta era uguale al valore del lavoro in essa incorporato. Se per cacciare un castoro ci vogliono due ore mentre per cacciare un cervo ci vuole un’ora, dice Smith, il valore di un castoro equivale al doppio del valore di un cervo. In sintesi il valore di una merce dipende dalla quantità di lavoro spesa per la sua produzione ed il lavoro è l’unità di misura per calcolare il valore dei beni prodotti.

Marx riprende il ragionamento di Smith e lo ripropone in chiave di sfruttamento: se il lavoro incorporato nelle merci è l’unità di misura per calcolare il valore, allora si ha che il fattore lavoro è l’unico fattore che può creare valore, e il profitto non è che una sorta di sfruttamento, un furto nei confronti dei lavoratori. Il profitto infatti non avrebbe motivo di esistere in quanto tutto il valore della produzione sarebbe originato dai lavoratori. Agli altri fattori della produzione spetterebbe solo una somma a copertura del costo per la loro produzione. Il capitale non sarebbe altro che un mezzo di produzione creato attraverso il fattore lavoro in stadi precedenti. In questo caso la sua remunerazione non sarebbe altro che il lavoro speso per la sua realizzazione.

Se un lavoratore per zappare la terra ha bisogno di un aratro di proprietà di un capitalista, il lavoratore dovrebbe pagare l’aratro in base a quello che è stato il suo costo di produzione (che in sostanza non è altro che un determinato numero di ore di lavoro). Nella teoria marginalista invece ogni fattore deve essere remunerato in base alla sua produttività marginale, e qualsiasi tipo di rendita o profitto è giustificato dal fatto che senza terra o capitale i lavoratori produrrebbero meno. Nell’esempio dell’aratro, se questo raddoppia la produzione, al proprietario dell’aratro spetterebbe la metà della produzione, ovvero il suo prodotto marginale.

Per spiegare la genesi delle due teorie ancora una volta bisogna risalire alla condizione storica e all’ambiente socioeconomico ed intellettuale in cui vivono gli autori. Marx vive nella prima metà dell’800, fase iniziale del capitalismo, fase in cui lo sfruttamento dei lavoratori è massimo. Nelle prime industrie manifatturiere si lavora in condizioni disumane ed il salario è al livello di sussistenza, le città si riempiono di proletari, provenienti dalle campagne, che vivono in condizioni precarie. C’è una continua tensione tra vecchia classe dominante (proprietari terrieri) e nuova classe dominante (capitalisti). In questo ambiente molto agitato, peraltro caratterizzato anche da numerose guerre per l’indipendenza dei popoli, la dottrina economica non può che manifestare questo clima di conflittualità ed una sostanziale incertezza nei confronti del nuovo modo di produzione da tutti gli ambienti culturali (si pensi ad esempio a Balzac o a Hugo). Si respira in alcuni ambienti culturali una sorta di restaurazione che caratterizza anche alcuni aspetti del Romanticismo, come reazione al cambiamento della società avvenuta nella fase dell’illuminismo, fase in cui si era proposta al comando del sistema la nuova classe sociale composta da banchieri, commercianti ed industriali.

L’ambiente socioeconomico e culturale di fine 800 presenta invece molte diversità. Si assiste a fondamentali innovazioni tecnologiche tra le quali quella dell’elettricità e il Positivismo diviene la dottrina filosofica dominante. Non si ha più quell’incertezza o quei dubbi che avevano caratterizzato la prima fase del capitalismo. Ora si ha la certezza nel progresso tecnico e nel buon esito del sistema. La teoria marginalista si sviluppa in questo contesto dalla fine dell’800 in poi a difesa del sistema capitalista, proteggendolo da teorie alternative che si basavano sui vecchi principi dello sfruttamento del lavoro come unico fattore produttivo in grado di creare valore aggiunto.

8.2 La critica al marginalismo

Nel corso del 900 si sono però manifestate delle forti critiche nei confronti della dottrina marginalista. In Italia, l’approccio alternativo più illustre è quello di Piero Sraffa e dei Neoricardiani. Sraffa ripropone in chiave moderna una teoria della distribuzione del reddito che prende spunto dalla concezione degli economisti classici. Secondo Sraffa la distribuzione del reddito continua ad essere caratterizzata dal fatto che una delle due variabili tra salario e profitto si stabilisce esogenamente (attraverso una contrattazione sociale) mentre l’altra si determina come residuo.

Mentre per gli economisti classici era il salario a determinarsi esogenamente (in base al livello di sussistenza), per Sraffa e per i Neoricardiani appare più plausibile che la variabile esogena sia il profitto, che potendo essere espresso da un rapporto percentuale si presta perfettamente a svolgere questo ruolo. In questo modo il salario si determina sempre come differenza tra il valore della produzione e la quota di questa che va per la remunerazione del capitale (ad esempio il 20% del valore del capitale investito). In questo caso la remunerazione del capitale è fissa, mentre la remunerazione del lavoro è variabile ed aumenta nello stesso modo in cui aumenta la quota di prodotto totale. E’ come se, una volta pagato il capitale, tutto ciò che rimanesse spettasse ai lavoratori.

Questa impostazione ha affascinato molto negli ultimi anni perché ha ripreso, se pur in chiave moderna, il concetto che salari e profitti sono in antagonismo e che tutto il progresso tecnologico andrebbe ad aumentare i salari dei lavoratori.
Cerchiamo di riassumere il punto di vista ideologico delle due dottrine. Se in un sistema economico ci fosse una sproporzione nella distribuzione del reddito a favore del capitale, un economista marginalista probabilmente attribuirebbe la colpa alla maggiore produttività del capitale (che in ultima istanza dipende dalla sua scarsità) e alla minore produttività del lavoro causata dalla sovrabbondanza di lavoro (abbiamo visto nell’esempio del paragrafo 1.2 che troppi lavoratori su di un pezzo ristretto di terra hanno una produttività bassissima). Cosa bisognerebbe dunque fare? Bisognerebbe riallocare i fattori nel modo da eliminare gli squilibri. Dove c’è sovrabbondanza di lavoro bisognerebbe introdurre capitale, e dove c’è sovrabbondanza di capitale bisognerebbe introdurre lavoro. E’ solo da una giusta combinazione tra lavoro e capitale che si può attuare una redistribuzione del reddito. Secondo un economista neoricardiano invece, se i salari fossero troppo bassi bisognerebbe rivedere i patti sociali a monte dell’attività produttiva ridefinendo il tasso di profitto.

9.2 Nuove tendenze nella distribuzione del reddito nell’era dell’Economia Digitale

Nel corso degli anni 90 si sono confermate alcune tendenze di fatto nella distribuzione del reddito che già negli anni passati avevano caratterizzato il mercato.

Innanzi tutto si è registrata una forte crescita del numero di investitori nei mercati finanziari che ha messo in discussione l’antico concetto di proprietà del singolo imprenditore lasciando spazio ad un concetto esteso di proprietà. Oggi tutti i lavoratori delle più grandi aziende possono possedere quote azionarie, se pur ridotte, delle società stesse. Inoltre il controllo delle imprese non è più sotto le mani di un singolo o di un gruppo ristretto di proprietari ma può risultare composto da un notevole numero di azionisti grandi, medi e piccoli. Oggi imprese che operano in settori diversi si scambiano tranquillamente quote azionarie al fine di possedere parte della proprietà di altre imprese. Il concetto di proprietà diviene così molto diverso dalla concezione classica dell’impresa posseduta da un’unica famiglia o da un singolo imprenditore.

Attraverso il Venture Capital (Capitale di Ventura), sistema di finanziamento che si sta sviluppando ultimamente soprattutto negli investimenti su Internet, la proprietà delle nuove aziende che operano nel campo delle telecomunicazioni avanzate si ripartisce tra finanziatori e tra lavoratori specializzati.

Ci sono infatti delle imprese finanziarie che prestano denaro a lavoratori specializzati che hanno idee su nuovi business in cambio di una parte delle quote azionarie dell’attività intrapresa. La proprietà risulta così ripartita equamente tra imprenditori e lavoratori. Gli imprenditori mettono il capitale finanziario mentre i lavoratori mettono il capitale umano ed intellettuale. Questo sistema si sta rivelando vincente rispetto ai metodi di investimento tradizionali in quanto la proprietà dell’impresa appartiene sia ai lavoratori che hanno le conoscenze tecniche sia ai finanziatori che hanno investito denaro nell’attività. Ma oltre al Venture Capital si sta sempre più diffondendo l’idea di distribuire nelle grandi imprese parte della proprietà ai lavoratori stessi, al fine di stimolare questi ultimi ad una efficiente produzione. Infatti è proprio la crescente concorrenza che si manifesta in alcuni settori a far ricorrere le aziende a qualsiasi mezzo pur di sopravvivere sul mercato.

La tendenza nei prossimi anni sarà dunque quella di una partecipazione congiunta di lavoro e capitale nella proprietà dell’attività economica. Dove per lavoro si intende chiaramente un tipo di lavoro caratterizzato da elevate competenze tecniche. Si pensi ad esempio all’importanza dell’innovazione nel sistema attuale. Il lavoro è l’unico fattore capace di innovare, le innovazioni tecnologiche nascono nel nostro tempo da ricerche e studi. Ci sono nelle imprese moderne interi dipartimenti che si occupano di sviluppare nuovi beni e servizi. E sono i lavoratori di quelle imprese ad avere il ruolo fondamentale nel processo produttivo. L’idea del piccolo imprenditore innovatore che crea la sua impresa dal nulla e possiede migliaia di dipendenti è ormai svanita.

Il sistema futuro infatti sarà sempre più caratterizzato dall’importanza del fattore lavoro inteso sia come forza lavoro sia come fattore in grado di generare innovazioni. Il progresso tecnico non è altro che il risultato di un lavoro specializzato.
Se dunque il progresso tecnico è la molla dell’Economia, oggi più che mai, ci possiamo aspettare nel futuro una maggiore quota del lavoro nella distribuzione del reddito a scapito del capitale. Anche perché in seguito alla crescente mobilità dei capitali, il capitale sta diventando un fattore relativamente sovrabbondante rispetto al lavoro specializzato.

La nuova tendenza dunque, da un lato rivaluta l’approccio marginalista in quanto supera la concezione della divisione in classi (e del conseguente sfruttamento), dall’altro rende realistica la concezione neoricardiana di un sovrappiù interamente distribuito ai lavoratori una volta che il capitale è stato remunerato con un tasso normale.

 

 

1.3 Costi fissi e costi variabili

Introduciamo il tema dei costi con il solito semplice esempio; questa volta cerchiamo di immaginare un piccolo imprenditore che da poco tempo abbia aperto una pizzeria. Il nostro piccolo eroe dovrà chiaramente sostenere dei costi. Innanzitutto avrà dei costi iniziali quali la licenza, l’affitto del locale e soprattutto la spesa per l’acquisto del forno. Tali costi essendo indipendenti dal volume di pizze prodotte si dicono fissi (CF). La particolarità dei costi fissi è che essi non sono correlati con la quantità di prodotto che si vuole produrre, ma sono indipendenti da questa. Tali costi sussisterebbero infatti anche se la quantità prodotta fosse zero. Prima di iniziare a produrre bisogna avere sempre e comunque una licenza, un locale e i macchinari necessari. Successivamente, il nostro piccolo imprenditore dovrà sostenere delle spese per le materie prime (farina, pomodoro, acciughe,…) e per l’energia elettrica.

Tali costi sono ovviamente correlati alla quantità prodotta; se si vuole produrre 100 pizze si avrà bisogno di 10 barattoli di pomodoro, se si vuole produrre 1.000 pizze si avrà bisogno di 100 barattoli. Tali costi sono chiamati appunto variabili (CV) per distinguerli da quelli fissi. Tra i costi variabili bisogna includere naturalmente il costo del lavoro, che costituisce la fonte di costo più importante.

Infatti, a seconda della quantità che l’imprenditore vuole produrre dovrà assumere una determinata quantità di lavoratori. Nei costi variabili si deve includere anche la remunerazione normale dell’imprenditore, che può essere assimilata ad una specie di salario. L’imprenditore all’inizio dell’attività fisserà una remunerazione per l’attività di gestione e controllo dei fattori produttivi. Il nostro piccolissimo imprenditore è a tutti gli effetti un lavoratore che deve recarsi puntualmente nel luogo di lavoro per organizzare i fattori (acquisto materie prime, risoluzione pratiche burocratiche, assunzione lavoratori,….) e controllare la buona riuscita del processo produttivo (funzionamento dei macchinari, controllo dei lavoratori, contabilità economica e finanziaria,…). Per questo lavoro l’imprenditore dovrà ricevere una remunerazione, che egli stesso fisserà al pari di un salario. Questa remunerazione che chiamiamo normale è una voce di costo per l’attività. Il termine normale indica che la remunerazione è quella che l’imprenditore presume di percepire a seguito della sua attività. In genere questa si stabilisce in base alla remunerazione media del settore.

In sintesi dunque i costi variabili comprendono: i costi delle materie prime, i costi del consumo energetico (energia, gas,…), i salari dei lavoratori e la remunerazione normale dell’imprenditore.
La differenza tra ricavi totali e costi totali è il profitto. Se i ricavi sono superiori a tutti i costi, l’imprenditore percepirà sia una remunerazione normale (che è inclusa tra i costi) sia un profitto (che è la differenza tra ricavi e costi) che alcuni libri chiamano non a caso extraprofitto per distinguerlo dalla remunerazione normale. Infatti, la differenza tra ricavi e costi è da intendersi come extra, ovvero come un qualcosa in più dopo che l’imprenditore è stato remunerato per la sua attività. E’ come se un imprenditore che nel 2013 apre una piccola pizzeria al taglio dica: “..ci devo almeno guadagnare 2000 euro al mese nette….altrimenti non la apro”. Nel caso in cui i ricavi fossero superiori ai costi (nei quali l’imprenditore ha inserito i suoi 2000) si parla di profitti o extraprofitti ed il nostro piccolo eroe potrà esclamare “…con questa pizzeria al taglio ci faccio 4.000 euro al mese nette…mi sta andando bene perché viste le circostanze mi sarei accontentato di 2000..”. La prima formula sui costi è dunque la seguente:

CT = CF + CV
I costi totali (CT) sono uguali ai costi fissi più i costi variabili.

TABELLA 1.3

I costi fissi sono rappresentati da una retta parallela all’asse delle ascisse in quanto questi sono sempre gli stessi qualunque sia la quantità prodotta. I costi variabili saranno invece crescenti all’aumentare della quantità prodotta. Nel grafico dei costi, tanto per ricordarlo, la variabile indipendente è naturalmente la quantità. Data una certa quantità prodotta i costi sono tali e non viceversa. Nella tabella si fa un semplice esempio su costi fissi e su costi variabili. Come si vede dalla tabella, se si vuole produrre 4 pizze si avranno dei costi fissi pari a 10 (tali costi si avrebbero comunque anche se la quantità fosse zero) e dei costi variabili pari a 80 per un totale di 90. Se invece si volessero produrre 5 pizze i costi fissi sarebbero sempre 10, mentre quelli variabili sarebbero pari a 120 per un totale di 130. Il grafico rappresenta costi fissi, variabili e totali dell’impresa. Lo studente può seguire punto per punto sul grafico confrontando i valori con la tabella. Come si vede, il costo fisso è rappresentato da una retta orizzontale in corrispondenza del costo iniziale di 10. Infatti, per qualsiasi quantità prodotta il costo fisso resterà invariato e sempre 10, anche quando la quantità prodotta è zero.

Quantità

 

Costi fissi

 

Costi variabili

 

Costi totali
0

 

10

 

0

 

10

 

 

1

10

 

 

20

 

30

2

 

 

10

 

30

 

40

 

3

 

10

 

50

 

60

 

4

 

10

 

80

 

90

 

5

 

10

120

 

 

130

 

6

10

 

 

170

180

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il costo variabile è invece nullo quando la quantità prodotta è zero ma aumenta all’aumentare di questa. La curva del costo totale risulterà dalla somma orizzontale delle due curve. Il costo totale è ovviamente uguale al costo fisso quando la quantità prodotta è zero, ma aumenterà poi nella stessa misura con la quale aumenta il costo variabile. Graficamente le due curve hanno lo stesso andamento, l’unica differenza è che la curva del costo totale è più alta di una misura pari al costo fisso.

 

C

180 160

120

90

60

30

Figura 1.3 Costi Fissi, Variabili e Totali

CT CV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0
012345

CF

6

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Oltre alla distinzione tra costi fissi e costi variabili c’è un’altra serie di costi fondamentali: costi marginali (Cm), costi medi (CM), costi variabili medi (CVM) e costi fissi medi (CFM) (alcuni manuali al posto del termine “medio” utilizzano il termine “unitario”). Così come il costo totale è la somma di costi fissi e costi variabili (CT=CF+CV), il costo medio (che è uguale al costo totale diviso la quantità) è la somma del costo variabile medio più il costo fisso medio (CM=CFM+CVM).

La tabella ed il grafico che seguono rappresentano i costi marginali ed i costi medi. Lo studente può seguire punto per punto le curve sul grafico, confrontando i valori con quelli della tabella.

2.3 Costi marginali, costi medi, costi variabili medi e costi fissi medi

Cm = DCT CM = CT/q CVM = CV/q CFM = CF/q

Quantità

 

 

Costi marginali

 

Costi medi

Costi variabili Costi fissi medi
 

1

 

20

 

30

Medi

 

20

10

 

 

2

10

 

 

20

 

15

 

5

3

 

20

 

20

 

16,7

 

3,3

 

 

4

30

 

 

22,5

 

20

 

2,5

 

5

 

40

 

26

 

24

 

2

 

6

50

 

 

30

 

28,3

 

1,7

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

TABELLA 2.3

I costi marginali (addizionali) sono i costi che devono essere sostenuti per produrre una unità in più di prodotto. Se ad esempio si vogliono produrre 5 pizze si avranno dei costi marginali di 40. Nella tabella, producendo 4 pizze si hanno dei costi totali di 90 e producendo 5 pizze si hanno dei costi totali di 130. Dunque, passando da 4 a 5 pizze si hanno dei costi marginali di 40, ovvero produrre la quinta pizza costa 40. Il costo marginale può anche essere definito come il costo che si deve sostenere per produrre l’ultima unità di prodotto, che come si è intuito coincide con l’incremento del costo totale. Il costo medio o unitario indica quanto mediamente costa una unità di prodotto e si ottiene dividendo il costo totale per la quantità prodotta. Il costo variabile medio si ottiene dividendo il costo variabile per la quantità prodotta mentre il costo fisso medio si ottiene dividendo il costo fisso per la quantità prodotta. Il primo indica quanto costa mediamente una unità di prodotto in termini di costi variabili, il secondo indica quanto mediamente costa una unità di prodotto in termini di costi fissi.

 

C

50 40

30

20

10 0

12345
Figura 2.3. Costo marginale, costo medio, costo variabile medio e costo fisso medio

I due grafici che seguono indicano la rappresentazione dei costi che tutti i manuali riportano. Nel primo grafico sono rappresentati i costi fissi ed i costi variabili. I primi, come abbiamo detto, sono rappresentati da una linea retta orizzontale che indica che per qualsiasi livello di quantità i costi fissi saranno sempre gli stessi (nel nostro esempio 10).

I costi variabili sono invece rappresentati da una curva crescente. All’aumentare della quantità i costi variabili crescono. La curva dei costi variabili parte dall’origine degli assi in quanto se la quantità prodotta fosse 0 non ci sarebbero costi variabili. La curva dei costi totali si ottiene sommando orizzontalmente costi fissi e costi variabili ed assume chiaramente lo stesso andamento dei costi variabili. Ora però, una volta precisato che la curva dei costi variabili è crescente e parte dall’origine, bisogna spiegare il suo andamento: nel grafico abbiamo tracciato una linea che prima aumenta in maniera decrescente e poi aumenta in maniera crescente assumendo l’aspetto di una s capovolta (alcuni manuali disegnano la curva dei CV, e di conseguenza dei CT, con una retta, ma questo è un caso semplificato). La ragione è da ricercarsi nell’andamento del costo marginale.

 

 

Cm

CM CVM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CFM 6Q

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C CT CV

CF Q

Figura 3.3. Costi variabili , costi fissi, costi totali

Nel grafico che segue abbiamo disegnato il costo marginale con una linea che prima è decrescente e poi è crescente. In altre parole abbiamo assunto nella tabella che da origine al grafico che il costo delle pizze aggiuntive sia prima decrescente e poi crescente. Infatti, la prima pizza costerebbe 20 (se si escludono i costi fissi che in teoria sono indipendenti dalla quantità prodotta), la seconda 10 , la terza 20 e la quarta 30. Per quale motivo abbiamo introdotto un esempio in cui i costi marginali prima decrescono e poi crescono? Si ricorderà che nel secondo capitolo abbiamo parlato della produttività marginale dei fattori produttivi; nell’esempio classico riportato da tutti i manuali quest’ultima prima è crescente e poi è decrescente.

Se dunque per un primo tratto la produttività marginale è crescente i costi marginali saranno decrescenti, quando invece la produttività marginale decresce (per la legge dei rendimenti decrescenti) i costi marginali crescono (è intuitivo comprendere che quanto maggiore è la produttività dei fattori tanto minore sarà il costo della quantità prodotta che dipende appunto dalla quantità utilizzata di fattori).

Il costo marginale è dunque il costo più importante. Questo ha influenza sull’andamento di tutti gli altri costi, esclusi ovviamente quelli fissi che come si capisce sono indipendenti dal regime di produttività.

Il costo medio è rappresentato da una curva ad U che viene intersecata nel suo punto di minimo dalla curva del costo marginale. Per capire l’andamento del costo medio ed il motivo per il quale la curva del costo marginale interseca la curva del costo medio nel suo punto di minimo si può far riferimento all’esempio della media universitaria illustrato nello scorso capitolo. Il costo marginale può essere assimilato al voto dell’ultimo esame, mentre il costo medio è come se potesse essere assimilato alla media. Fintantoché i costi marginali sono inferiori alla media, la media decrescerà; quando poi i costi marginali superano la media, la media crescerà.

In questo modo, per effetto dei costi marginali, i costi medi prima decresceranno e poi, quando il costo marginale supera il costo medio, questi inizieranno a crescere.

 

 

 

 

 

C

Cm

CM CVM

CFM

Q

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 4.3 Costo marginale, costo medio, costo variabile medio, e costo fisso medio

Ci restano da comprendere i costi variabili medi ed i costi fissi medi. I costi variabili medi sono rappresentati da una curva ad U sottostante alla curva ad U del costo medio. La curva del costo variabile medio è intersecata dal costo marginale nel suo punto di minimo per la stessa ragione per la quale la curva del costo medio è intersecata dalla curva del costo marginale nel suo punto di minimo. I costi fissi sono rappresentati invece da una curva decrescente asintotica all’asse delle quantità. La curva decresce infinitamente in quanto al crescere della quantità prodotta i costi fissi si distribuiranno su una quantità crescente di unità. Se infatti si producessero 10 pizze i costi fissi medi sarebbero uguali ad 1 (10/10 = 1), se si producessero 100 pizze i costi fissi medi sarebbero uguali a 0,1 (10/100 = 0,1). Per questo motivo, la curva decresce al crescere delle quantità ma non arriva mai a toccare l’asse orizzontale (si dice infatti che è asintotica) in quanto i costi fissi medi, comunque grande sia la quantità, saranno sempre positivi. Se si sommano orizzontalmente la curva del CFM e del CVM si ottiene la curva del CM (infatti CM = CFM + CVM, ovvero CT/q = CF/q + CV/q che riconduce alla formula primaria CT = CF + CV). Se si analizza attentamente l’andamento del CVM si noterà che questo, pur essendo sottostante al CM, al crescere della quantità si avvicina al CM. Il motivo risiede nel fatto che il CM è la somma del CVM e del CFM, e quando quest’ultimo si avvicina allo zero (senza però mai essere nullo) il CVM si avvicina al CM.

3.3 I regimi di mercato

Prima di concludere questo capitolo introduciamo il tema dei regimi di mercato, argomento dei seguenti quattro capitoli.
Come si ricorderà dal primo capitolo per mercato si intende la produzione e la vendita di un singolo bene (mercato del latte, mercato delle sigarette, mercato delle automobili,….), ogni mercato è composto da produttori e da consumatori.

Per regime di mercato si intende invece l’insieme di relazioni che intercorrono tra produttori e consumatori. L’elemento chiave è “il potere di mercato” di venditori ed acquirenti; in base a questo si possono distinguere vari regimi di mercato. All’aumentare del potere di mercato dei produttori si passa da regimi concorrenziali a regimi monopolistici. I primi sono caratterizzati da un ampio numero di produttori i secondi sono caratterizzati da un basso numero di produttori, al limite uno soltanto come nel caso del monopolio. Il potere di mercato dei produttori sarà infatti minimo se all’interno di un mercato ci sono numerosi produttori che vendono beni identici, mentre sarà massimo quando a vendere il prodotto è un unico produttore.

Un elemento che caratterizza i regimi di mercato è di conseguenza l’esistenza degli extraprofitti. Al diminuire del potere di mercato dei produttori si riducono gli extraprofitti.

 

 

1.4 Le condizioni fondamentali di un regime in concorrenza perfetta

La concorrenza perfetta è un regime di mercato caratterizzato da almeno sei condizioni fondamentali.

.    1  Alto numero di Produttori

.    2  Identità dei prodotti

.    3  Informazione Perfetta

.    4  Assenza di accordi tra i Produttori

.    5  Assenza di barriere all’entrata ed all’uscita

.    6  Identica funzione dei costi per tutte le imprese del mercato

Se all’interno di un mercato si verificano queste condizioni si ha una concorrenza perfetta tra i produttori. Ma se solo una di queste condizioni venisse meno si passerebbe da situazioni di concorrenza perfetta a situazioni di concorrenza imperfetta.

Supponiamo che nel mercato delle banane ci siano numerosi produttori che vendano un prodotto identico (banane della stessa dimensione, colore, odore, sapore,..) e che ci sia un grado di informazione perfetta tra produttori e consumatori (nel senso che entrambi conoscono prezzi e quantità del prodotto scambiato). Supponiamo anche che tra i produttori non ci siano accordi e che quest’ultimi abbiano dei costi di produzione identici (curve di costo identiche) in modo tale che il costo di produzione di una determinata quantità di banane sia sempre identico per tutti i produttori.

Supponiamo inoltre che ci sia libertà di entrata e di uscita dal mercato.

In tal caso, il prezzo delle banane sarà identico per tutti i produttori, ovvero in altri termini tutti i produttori venderanno le banane allo stesso prezzo.
In un regime di concorrenza perfetta è come se il prezzo di mercato fosse “dato” in quanto nessuno dei produttori può vendere il prodotto ad un prezzo distinto. Se ad esempio per effetto della crisi tornasse come moneta la lira, ed il prezzo di mercato di una banana fosse 500 lire (25 centesimi di euro), nessun produttore potrebbe vendere una banana a 510 lire in quanto nessun consumatore comprerebbe una banana identica sapendo che da qualsiasi altro la può acquistare a 500 lire. Essendo per il consumatore completamente indifferente l’acquisto di una banana da uno o dall’altro produttore (in quanto i prodotti sono identici) si ha un grado di perfetta concorrenza che porta ad un unico prezzo sul mercato. Ma tale prezzo, che abbiamo visto che è dato e non modificabile da nessuno dei produttori, come viene determinato? Si determina dall’incrocio tra la domanda e l’offerta complessiva dell’intero mercato così come è stato spiegato nel capitolo 1.

2.4 L’impresa in concorrenza perfetta

Vediamo come si comporta un’impresa in concorrenza perfetta analizzando il grafico 1.4 nei suoi quattro passaggi sequenziali.

 

 

 

P

500

A) Mercato Complessivo O

E

10.000

P

500

B) Domanda della singola Impresa

d

 

 

 

 

 

 

 

 

 

D

 

 

 

QQ

 

C) Quantità venduta dall’impresa P,C

P,C

500 410

D) Risultato economico dell’impresa

Cm

CM d

Q

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

500

Cm a

d

Q

a

b

100

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

70 100 130

 

 

 

Figura 1.4 Impresa in concorrenza perfetta nel breve periodo

La prima figura indica una situazione di equilibrio nel mercato delle banane (ricordiamo sempre che i numeri sono casuali). Ad un prezzo di 500 lire la domanda complessiva di banane dei consumatori è uguale all’offerta complessiva dei produttori, nel nostro caso 10.000 unità. Il mercato in questo caso è in equilibrio in quanto tutto ciò che viene prodotto viene consumato e non ci sono dunque ne eccessi di offerta ne eccessi di domanda. Qualsiasi produttore di banane in una situazione di concorrenza perfetta (si suppone per semplicità che produttori e venditori siano la stessa persona) si trova di fronte ad un prezzo dato che è stato determinato automaticamente dal mercato complessivo. Essendo il suo prodotto, identico a quello venduto dai concorrenti, nessuno dei produttori può vendere ad un prezzo diverso da quello di mercato.

Il produttore dunque si trova di fronte ad un prezzo dato di 500 lire; quest’ultimo essendo molto piccolo rispetto alla dimensione del mercato (numerosità degli operatori) è come se si trovasse di fronte una domanda perfettamente orizzontale in corrispondenza del prezzo di 500 lire (seconda figura del grafico 1.4).

In sostanza, la domanda che ha di fronte il produttore è costituita da una retta orizzontale (domanda perfettamente elastica), in quanto esprime il fatto che il produttore può vendere la quantità che vuole al prezzo stabilito dal mercato. Spieghiamo quanto detto con un semplice esempio. Immaginiamo che il mercato di banane di un determinato paese sia rappresentabile con una grande piazza molto affollata dove ci sono tantissimi banchi di banane, perfettamente identiche, vendute da omini muti vestiti tutti dello stesso colore. In una tale situazione essendo perfettamente indifferente per i consumatori comprare da uno o dall’altro si avrà che la domanda di banane (da parte dei consumatori) che si trova a fronteggiare il singolo banco sarà rappresentata da una retta orizzontale in corrispondenza del prezzo di mercato. E’ come se un singolo banco si trovi di fronte ad un grandissimo numero di richieste di banane (infatti ci sono tantissimi consumatori che passano) e ogni richiesta richiede il prodotto al prezzo di mercato di 500 lire. Il nostro banco è costretto a vendere al prezzo concorrenziale stabilito dall’intero mercato, perché se vendesse ad un prezzo più alto non venderebbe neanche una unità di prodotto e se provasse a vendere ad un prezzo più basso non riuscirebbe a coprire i costi (come vedremo nel prossimo paragrafo).

Per tornare all’esempio della piazza si ha che la domanda complessiva di banane da parte di tutti i consumatori è rappresentata dalla curva D del grafico 1.4.A. Mentre la curva di domanda per l’impresa (che non è altro che la domanda di banane nei confronti di una singola impresa) è rappresentata dalla retta orizzontale della figura 1.4.B. Una volta che il produttore si trova di fronte ad una illimitata richiesta di banane tutte al prezzo di 500 lire dovrà ora decidere la quantità da produrre e quindi da vendere. Il produttore per il momento conosce solo il fatto che ogni banana venduta gli farà incassare 500 lire. Ma le decisioni di produzione dipenderanno dalla stima congiunta di costi e ricavi. Sull’asse delle ordinate misuriamo infatti sia il prezzo di mercato che i costi dell’impresa (essendo le due grandezze espresse in moneta è possibile misurarle sullo stesso asse, nell’intestazione dell’asse in alcuni manuali si può trovare solo la lettera P che indica oltre al prezzo i costi). Il produttore troverà conveniente produrre banane solo se il costo di queste fosse inferiore al prezzo di mercato, al contrario se il costo fosse superiore al prezzo nessuno produrrebbe banane. Quale sarà dunque l’elemento che il produttore dovrà tenere in considerazione per stabilire la quantità da vendere? Questo sarà naturalmente il costo marginale delle banane. Ricordiamo ancora una volta che il costo marginale è il costo di produzione dell’ultima unità prodotta. Al produttore converrà produrre banane sino a quando il costo marginale di queste sarà inferiore al prezzo, mentre non gli converrebbe vendere banane se il costo marginale fosse superiore al prezzo di mercato.

P = Cm

La terza figura del grafico 1.4 illustra appunto la quantità ottimale prodotta dall’impresa in concorrenza perfetta. La quantità ottimale prodotta dall’impresa in concorrenza perfetta sarà quella in corrispondenza dell’uguaglianza tra costo marginale e prezzo di mercato (punto a).

In questo modo, l’impresa in concorrenza perfetta produce la quantità ottimale

(nel nostro esempio 100 banane). Infatti, se l’impresa producesse una quantità superiore a quella ottimale, ad esempio 130 banane, avrebbe una perdita sulle ultime 30 banane prodotte (triangolo sopra la retta).
E’ chiaramente visibile nella figura 1.4.C che le ultime 30 banane prodotte hanno un costo marginale superiore al prezzo. In altri termini, le ultime 30 banane prodotte costano all’impresa più di quanto si può da queste ricavare vendendole sul mercato. Dalla centesima unità in poi il costo marginale di ogni singola banana diventa superiore al prezzo di mercato. A meno che l’imprenditore non sia razionale a questo non converrà produrre più di 100 banane. Se l’impresa al contrario avesse prodotto una quantità inferiore a quella ottimale, ad esempio 70 banane, avrebbe un mancato guadagno costituito dalla mancata produzione di altre 30 banane (triangolo sotto la retta ). Infatti, fino alla centesima banana il costo marginale di queste è inferiore al prezzo di vendita e l’impresa si priverebbe di un guadagno costituito dalla differenza tra il prezzo di vendita ed il costo di produzione dalla settantesima alla centesima banana .

Si capisce immediatamente che si avrà convenienza a produrre sino a quando il costo marginale è uguale al prezzo di mercato, quando questo supera il prezzo di mercato non si ha più convenienza a produrre. Risulta dunque evidente che la quantità ottimale si ottiene in corrispondenza dell’uguaglianza tra costo marginale e prezzo (100 banane). Una volta determinata la quantità ottimale bisogna vedere se l’impresa è in perdita o produce utili. Infatti, l’aver prodotto la quantità ottimale non implica necessariamente che l’impresa sia in utile. Per misurare le perdite o i profitti dell’impresa bisogna tracciare la curva dei costi medi che indicano quanto mediamente è costata una determinata quantità di prodotto. Infatti, il costo marginale indica solamente il costo dell’ultima unità mentre a noi interessa ora verificare quanto mediamente sono costate tutte le quantità prodotte. Nell’esempio del grafico 1.4.D si ha che le 100 banane prodotte sono costate in media 410 ciascuna (punto b). Essendo vendute a 500 lire si ha un profitto di 90 su ogni unità; con un profitto totale di 9.000 = 90 * 100 (rettangolo colorato).

Ma illustriamo in maniera dettagliata il risultato economico dell’impresa.
Nella figura 2.4.A sono illustrati i ricavi dell’impresa, i quali sono dati dalla moltiplicazione del numero delle quantità vendute per il prezzo di mercato. I ricavi dell’impresa saranno infatti pari a 100 * 500 = 50.000. L’area del rettangolo colorato illustra infatti i ricavi dell’impresa (ricordando che l’area del rettangolo è uguale a base per altezza). I costi dell’impresa (grafico 2.4.B) saranno invece rappresentati dal rettangolo che ha come base la quantità prodotta e come altezza il costo medio di quella data quantità. I costi totali saranno pari a 100 * 410 = 41.000. Il costo medio di 410 indica appunto che avendo prodotto 100 banane in media una è costata 410.
La differenza tra ricavi e costi costituisce gli extaprofitti dell’impresa (figura 2.4.C). Alcuni manuali come già detto non utilizzano il termine extraprofitti ma si limitano ad utilizzare il termine profitti specificando però che tali guadagni sono un qualcosa di aggiuntivo alla remunerazione normale (che è inclusa nei costi).
Nell’ultimo grafico della figura 2.4 è illustrata la figura che tutti i manuali riportano e che è la sintesi di quanto detto. Dato il prezzo di mercato p*, l’impresa in concorrenza perfetta produrrà quella quantità q* in corrispondenza della quale il costo marginale è uguale al prezzo (punto a).
I ricavi dell’impresa sono dati dal rettangolo o-p*-a-q, mentre i costi totali sono dati dal rettangolo o-CM-b-q*.

I profitti risultano dalla differenza dei due rettangoli che è costituita dal rettangolo

 

 

 

P,C

p* = 500

p*-CM-a-b.

A) Ricavi dell’impresa Cm

P,C

B) Costi dell’impresa
Cm

 

 

 

 

 

CC

aM aM dd

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

p* = 100

C) Extraprofitti dell’impresa Cm

Q

CM = 410

P,C

b

p* = 100 Q

D) Rappresentazione di sintesi Cm

 

 

 

 

 

 

 

P,C

p* = 500 CM = 410

CC

 

 

 

 

 

aM aM dp* d

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b

C M

b

 

 

 

p*=100 Q O q* Q

Figura 2.4 Ricavi, costi ed extraprofitti

3.4 Equilibrio nel Lungo periodo

La situazione che abbiamo illustrato in questi grafici si riferisce ad una situazione di breve periodo. In effetti, solo momentaneamente una impresa in concorrenza perfetta può percepire extraprofitti. Nel lungo periodo gli extraprofitti di un mercato in concorrenza perfetta si annullano.

Cerchiamo di capire il perché. La ragione ancora una volta risiede nella definizione di extraprofitto. Questo costituisce il guadagno aggiuntivo che percepisce l’imprenditore una volta che ha remunerato se stesso con un profitto normale.
Torniamo al mercato delle banane e supponiamo che in alcuni mercati contigui si diffonda la notizia che nel mercato delle banane siano presenti degli extraprofitti.

 

 

Alcuni produttori di albicocche, che ad esempio si trovano in perdita, troveranno conveniente lasciare la produzione di albicocche ed intraprendere la produzione delle banane. Così faranno anche tutti quei produttori ortofrutticoli che in un caso o nell’altro ritengono più conveniente produrre banane in quanto la vendita di queste genera extraprofitti.

 

A) Presenza di extraprofitti nel Breve Periodo

B) Entrata di nuovi concorrenti

 

 

 

P,C

500 410

P,C

500 400

Cm

P,C

500 400

P,C

p*’= 400 a’ q*’= 80

O
O’

 

 

 

 

 

 

 

 

a

CM d

E

10.000 12.000
D) Equilibrio dell’impresa nel Lungo Periodo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b

E’
D

 

 

 

100
C) Riduzione del prezzo per l’impresa

 

 

 

Q

Q

Cm
CM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a

80 100

d d’

d’

 

 

 

 

 

a’

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Q

Figura 3.4 Equilibrio dell’impresa nel lungo periodo

In sostanza, la presenza di extraprofitti in un mercato attirerà nuovi concorrenti.

Ma vediamo cosa succede graficamente. Nel grafico 3.4.A è rappresentata nuovamente la condizione di una impresa in concorrenza perfetta che percepisce extraprofitti.
Ma tale condizione, come abbiamo detto, attirerà nuovi concorrenti sul mercato che contribuiranno ad un aumento dell’offerta di banane (grafico 3.4.B).

L’aumento dell’offerta nel mercato complessivo delle banane comporterà un nuovo punto di equilibrio da E a E’ con una riduzione del prezzo da 500 a 400. Ciascuna impresa si troverà così di fronte ad una nuova domanda (d’) inferiore rispetto alla precedente (grafico 3.4.C). Ci sarà anche, per l’impresa, un nuovo punto di produzione ottimale, indicato dal punto a’, nel quale si avrà l’uguaglianza del costo marginale con il nuovo prezzo di 400 (grafico 3.4.D).

Ma fino a quando entreranno i concorrenti? Fino a quando ci saranno extraprofitti. La riduzione del prezzo di mercato comporta infatti una riduzione degli extraprofitti fino alla loro scomparsa. Il prezzo in effetti scenderà fino ad eguagliare il costo medio, graficamente si avrà che la retta del prezzo (che rappresenta la domanda dell’impresa) scenderà fino al punto di tangenza con il costo medio.

Il prezzo non potrà scendere oltre in quanto se entrassero nuovi concorrenti il prezzo di mercato si ridurrebbe ancora e sarebbe inferiore ai costi medi. In tale situazione nessun concorrente avrebbe incentivo ad entrare nel mercato in quanto i costi totali sarebbero superiori ai ricavi totali. Il prezzo di mercato scenderà nel lungo periodo fino a quando sarà tangente alla curva dei costi medi dell’impresa; in questa situazione gli extraprofitti si annulleranno. Nel grafico 3.4.D il nuovo prezzo di mercato di 400 è sufficiente a coprire tutti i costi dell’impresa (compresa la remunerazione normale) ma non genera extraprofitti. I ricavi totali sono uguali a 80 * 400, in quanto 80 è la nuova quantità e 400 è il loro nuovo prezzo, mentre i costi totali sono anch’essi 80 * 400, in quanto il costo medio relativo alla produzione di 80 banane è 400. La situazione del grafico 3.4.D è una situazione di lungo periodo, in quanto comporta un equilibrio stabile. Nel lungo periodo la condizione di equilibrio di una impresa in concorrenza perfetta si ha quando il prezzo è uguale al costo marginale e contemporaneamente al costo medio.

P = Cm = CM

Questa situazione di equilibrio è anche detta situazione di pareggio in quanto l’impresa non sperimenta ne perdite ne extraprofitti. L’impresa riesce comunque a coprire tutti i costi e assicura un profitto normale all’imprenditore.
La domanda più comune riguardo alla condizione di equilibrio di lungo periodo è la seguente: ma perché la condizione di equilibrio si ha quando i costi totali sono uguali ai ricavi totali, le imprese lavorano forse per la gloria? Ripetiamo ancora una volta che nei costi vanno inclusi anche i profitti normali che gli imprenditori si aspettano di percepire in seguito all’attività economica. E che dunque nel caso in cui i ricavi siano perfettamente uguali ai costi significa che questi avranno fatto bene i conti con il mercato, nel senso che sono riusciti a coprire tutti i costi assicurando per se stessi un profitto normale. Il profitto normale come abbiamo visto nel capito 3 non è altro che una sorta di remunerazione media del settore in cui opera l’imprenditore.

Cosa succede se il prezzo per qualche ragione aumentasse nuovamente da 400 a 500? Si rimetterebbe in moto il processo di prima. Ci sarebbero nuovamente extraprofitti, entrerebbero nuovi concorrenti, l’offerta aumenterebbe e comporterebbe una nuova riduzione del prezzo sino al livello di equilibrio con l’assenza di extraprofitti.

Nel lungo periodo i ricavi totali sono uguali ad i costi totali dell’impresa e non si hanno extraprofitti. Il potere di mercato delle imprese è dunque nullo; queste non possono in alcun modo influire sul prezzo, devono accettare il prezzo di mercato che in una situazione di equilibrio è sempre uguale al costo medio.

Come si intuisce facilmente è molto poco realistico che in un mercato si possano realizzare tutte le condizioni sopra elencate. I prodotti non sono mai del tutto identici, hanno sempre qualche elemento di distinzione come ad esempio il colore, il sapore l’odore che possono leggermente differire anche se le qualità di base del prodotto rimangono inalterate. Per non parlare poi di altri elementi di differenziazione quali la confezione e la marca. Supponiamo ora che uno degli omini del mercato delle banane abbia l’idea di diversificare, anche solo di poco il suo prodotto, mettendo ad esempio sulle sue banane un bollino blu. Il giorno seguente i consumatori della piazza potranno non essere indifferenti nello scegliere tra le normali banane e quelle con il bollino blu. Tale politica di vendita potrebbe inoltre consentire all’omino di vendere le sue banane ad un prezzo di poco superiore a quello del resto delle banane.

Il giorno successivo altri omini potrebbero però imitare l’idea mettendo sulle banane bollini colorati, ciascuno con un proprio colore. La situazione che si verrebbe a creare non sarebbe più di concorrenza perfetta, in quanto se i consumatori fossero sensibili ai colori sceglierebbero le banane con il bollino del colore preferito; e se ad esempio per qualche strana ragione andasse di moda il rosa si avrebbe che le banane con il bollino rosa venderebbero più delle altre con un prezzo, se pur di poco, superiore.

La stessa cosa succederebbe se, al posto del bollino colorato, l’omino si mettesse a fare una pubblicità particolare alle sue banane o nella più fortunata delle ipotesi chiamasse una fanciulla seminuda come assistente alla vendita. Basta dunque una minima differenziazione del prodotto per uscire dalla situazione di concorrenza perfetta.

Abbiamo finora discusso di uno soltanto dei requisiti della concorrenza perfetta. Supponiamo invece che le banane continuino ad essere perfettamente identiche e che al contrario venga a mancare una delle altre condizioni fondamentali. Immaginiamo ad esempio che uno degli omini trovi un sistema migliore per produrre le banane e che in seguito a questo possa produrre banane a costi minori rispetto agli altri concorrenti. In tal modo l’omino potrà vendere le banane a prezzi inferiori a quello di equilibrio senza sperimentare perdite, conquistando così tutto il mercato. Se infatti nella piazza si spargesse la notizia che un banco vendesse le banane a 390, tutti i consumatori comprerebbero le banane da quest’ultimo e gli altri banchi dovrebbero chiudere non potendo produrre a 390 (in quanto andrebbero in perdita). Da una situazione di concorrenza perfetta si passerebbe drasticamente ad una situazione di monopolio.

Nel caso di informazione imperfetta i consumatori potrebbero ignorare in parte i prezzi delle banane; sarebbe dunque possibile che qualcuno di questi acquistasse banane a prezzi diversi e superiori a quello di equilibrio. In tal caso non ci sarebbe più concorrenza perfetta.

Se invece fosse possibile per i produttori trovare accordi, questi potrebbero di comune accordo alzare il prezzo di mercato al di sopra del livello concorrenziale senza incorrere in una guerra dei prezzi (la quale farebbe ricadere il prezzo al livello di equilibrio). La presenza di accordi è naturalmente correlata con il numero di concorrenti. Maggiore sarà il numero di concorrenti e più difficile sarà prendere accordi collusivi.

Se venisse a mancare la libertà di entrata ed uscita sarebbe più complesso il processo di equilibrio del mercato da situazioni di extraprofitto a situazioni senza extraprofitto. In quanto una situazione di extraprofitto, senza l’entrata di nuovi concorrenti, si potrebbe protrarre per lungo tempo.

4.4 Un caso reale di concorrenza “quasi” perfetta: il commercio elettronico

Alla luce di quanto detto possiamo ora tranquillamente concludere che la concorrenza perfetta è comunque un regime di mercato che nella realtà non esiste; è solo un’ipotesi manualistica che rappresenta un regime di mercato estremo. E’ infatti quasi impossibile che in un mercato i prodotti siano perfettamente identici e che ci sia un grado di informazione perfetta. I costi delle imprese d’altronde non sono mai perfettamente identici.

Nella realtà i mercati che più si avvicinano a situazioni di concorrenza perfetta sono quelli agricoli; in questi infatti è minore la diversificazione del prodotto e maggiore il numero dei produttori. Le nuove trasformazioni dell’economia stanno facendo comunque intravedere, nei nuovi settori dell’economia digitale, nuove forme di concorrenza “quasi perfetta”. In seguito all’avvento di internet si sta sviluppando in maniera esponenziale l’eCommerce (Commercio su internet) che ha alcune caratteristiche che possono richiamare per certi versi la concorrenza perfetta. La prima è il grado molto elevato di informazione su prezzi e prodotti scambiati. La seconda è la standardizzazione e la conseguente bassa diversificazione dei prodotti venduti on line. Infatti, i prodotti venduti su internet necessitano di caratteristiche molto convenzionali; è più facile che venga venduto un viaggio aereo piuttosto che un’opera d’arte. Quest’ultima per essere acquistata necessita di essere vista dal vivo (per evitare equivoci o truffe), mentre un viaggio aereo di cui è nota la compagnia non ha bisogno di ulteriori specificazioni. Quale è la differenza tra i due prodotti? L’opera d’arte è un prodotto estremamente particolare mentre il viaggio aereo ha caratteristiche standard. In teoria non ci sono grandissime differenze tra un volo Roma-Madrid con Alitalia, Iberia, Virgin o altre compagnie. La terza caratteristica dell’eCommerce è la numerosità degli attori e l’assenza di barriere all’entrata. Attraverso internet si può acquistare in qualsiasi parte del mondo potendo visionare l’offerta di tutti i produttori mondiali presenti sul web.

Un caso limite è quello dell’eTrading (finanza on line). Abbiamo visto in precedenza che una banana con il bollino blu è diversa da una con il bollino rosa, ma quando si parla del denaro, sporco o pulito che sia, siamo tutti d’accordo che è sempre uguale. L’unico bene che non può esser diversificato in nessun modo è il denaro in quanto è un bene che non ha qualità intrinseche ma solo un valore di scambio.

Su internet è oggi possibile prendere a prestito del denaro da qualsiasi banca on line del mondo. Se il nostro omino delle banane decidesse di intraprendere una nuova attività avrebbe di certo bisogno di un prestito. Potrebbe chiedere del denaro alla banca più vicina, ma così facendo pagherebbe un tasso di interesse magari del 10%. Successivamente navigando su internet si potrebbe accorgere che in Giappone c’è una banca che presta soldi ad un tasso dell’2%. Egli non dovrà far altro che richiedere il prestito e la somma dopo pochi istanti sarebbe accreditata sul suo conto corrente.

Su internet è possibile conoscere tutti i tassi di interesse praticati da tutte le banche del mondo e scegliere quella con il più basso tasso.
Quale è la conseguenza di ciò? La conseguenza è un graduale livellamento di tutti i tassi di interesse. I consumatori che domandano prestiti di denaro su internet è come se si trovassero in una grande piazza con di fronte numerosissimi venditori che vendono un prodotto perfettamente identico.

Ancora oggi comunque ci sono dei vincoli alla completa mobilità dei capitali, nel senso che non è così facile chiedere in prestito denaro, come del resto l’informazione non è mai completamente perfetta.

Nel futuro sarà comunque possibile immaginare una maggiore mobilità dei capitali con la possibilità di realizzare un regime di mercato molto vicino alla concorrenza perfetta.

5.4 Punto di chiusura e punto di pareggio

Abbiamo visto in precedenza che le imprese in concorrenza perfetta nel Breve periodo possono percepire extraprofitti (figura 1.4) ma che questa condizione non può che durare per molto sul mercato in quanto prima o poi i profitti si annullerebbero per l’entrata di nuovi concorrenti provocando una riduzione del prezzo fino al livello del costo medio. Nel lungo periodo infatti (figura 3.4) si realizzerà una condizione di equilibrio stabile dove il prezzo, oltre ad essere uguale al costo marginale (condizione di produzione ottimale) sarà anche uguale al costo medio. In una tale situazione nessuno avrà incentivi ad uscire o ad entrare nel mercato ed il prezzo di mercato non tenderà né a salire né a scendere. Ma ora ci domandiamo cosa succederebbe ad una impresa se invece di percepire extraprofitti od essere in pareggio fosse in perdita. Nella figura 4.4 è rappresentata una impresa in perdita. Il prezzo è inferiore al costo medio, ed i costi totali (rettangolo o-CM-b-q) sono superiori ai ricavi totali (rettangolo o-p-a-q). Le perdite sono rappresentate dal rettangolo colorato (CM-p-b-a). Cosa farà dunque tale impresa? Uscirà di scena o resterà sul mercato aspettando tempi migliori? Se i ricavi non fossero neanche sufficienti a coprire i costi variabili, ovvero se il prezzo di mercato fosse inferiore al costo variabile medio (CVM), l’impresa dovrebbe uscire immediatamente. Se non si riescono a pagare materie prime e salari è impossibile continuare l’attività a meno di imbattersi in denunce sindacali o ritorsioni da parte dei fornitori.

 

P,C

Cm
CM

 

 

 

 

 

b

Oq

Figura 4.4 Impresa in perdita

 

CM pad

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Se invece il prezzo fosse superiore al costo variabile medio, l’impresa riuscirebbe a coprire tutti i costi variabili ed una parte di quelli fissi. Di conseguenza, l’impresa avrebbe convenienza a rimanere sul mercato in quanto se uscisse, avrebbe una perdita rappresentata dalla totalità dei costi fissi. Per questi infatti è stata già esborsata dall’imprenditore una certa quantità di denaro all’inizio dell’attività economica. L’impresa avrà quindi convenienza a produrre in perdita pur coprendo una parte di dei costi fissi piuttosto che uscire e perderli totalmente. Inoltre, i costi fissi possono mutare nel tempo a seconda della dimensione dell’impresa; è possibile infatti che nel tempo questi possano diminuire. Di solito si hanno delle economie di scala che consentono alle imprese di ridurre in proporzione i costi fissi quando aumenta il volume delle vendite. I costi variabili invece tendono nella realtà a mantenersi costanti o addirittura ad aumentare proporzionalmente al crescere del volume delle vendite. Se una impresa vuole raddoppiare la sua dimensione, non è detto che i costi fissi raddoppino, è quasi sicuro che questi aumentino meno che proporzionalmente.

Per questa ragione per un’impresa in perdita non sarà gravissimo il fatto di non poter coprire subito tutti i costi fissi, mentre è indispensabile che questa copra immediatamente quelli variabili. Quanto abbiamo detto si riferisce ovviamente ad una situazione di Breve periodo in quanto nessuna impresa resterà sul mercato continuando indefinitamente a sperimentare perdite. Nel lungo periodo l’impresa deve infatti necessariamente coprire tutti costi.

In una situazione di Breve periodo un’ impresa resterà sul mercato se il prezzo è superiore od uguale ai costi variabili medi (ovvero se i ricavi sono superiori od uguali ai costi variabili).
In una situazione di Lungo periodo un’ impresa resterà sul mercato se il prezzo è superiore od uguale al costo medio (ovvero se i ricavi sono superiori od uguali ai costi totali). Con riferimento alla figura 5.4, se in una situazione di Breve periodo il prezzo fosse inferiore a pc, l’impresa dovrebbe uscire immediatamente dal mercato. Il prezzo identificato dalla retta pc è anche chiamato prezzo di chiusura in quanto al di sotto di questo l’impresa deve necessariamente chiudere perché non copre neanche i costi variabili medi (CVM). Nel lungo periodo abbiamo invece detto che l’impresa deve per forza di cose andare in pareggio, ed è per questo che il prezzo non può essere inferiore al prezzo pp che è anche chiamato prezzo di equilibrio o prezzo di pareggio (in quanto l’impresa non sperimenta ne extraprofitti ne perdite), in caso contrario l’impresa sarebbe costretta ad uscire dal mercato.

 

P,C

pp pc

Cm

CM CVM

Q

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 5.4 Prezzo di pareggio e prezzo di chiusura

6.4 Curva di offerta dell’impresa

Siamo ora in grado di determinare la curva di offerta di un’impresa. Nel breve periodo la curva di offerta dell’impresa sarà costituita dal tratto crescente del costo marginale a partire dal prezzo pc, infatti al di sotto di tale prezzo l’impresa non ha convenienza a produrre. Nel lungo periodo invece, la curva di offerta dell’impresa sarà costituita dal tratto crescente del costo marginale a partire dal livello di prezzo pp, in quanto al di sotto di tale prezzo l’impresa come abbiamo visto deve uscire dal mercato.
Per convincerci che il tratto crescente del costo marginale a partire dal prezzo di chiusura o pareggio (a seconda che si tratti del breve o del lungo periodo) costituisca la curva di offerta di una impresa si deve osservare il modo attraverso il quale l’impresa stabilisce di produrre la quantità ottimale. Questa, come abbiamo più volte ripetuto, si determina dall’uguaglianza tra prezzo e costo marginale. In altri termini è la curva del costo marginale che indica per ciascun livello di prezzo quella che sarà la quantità che l’impresa produrrà e offrirà sul mercato

6.5 Il Concetto di Breve e Lungo periodo e la possibilità di mutare la dimensione

Abbiamo visto in precedenza che nel breve periodo le imprese in concorrenza possono percepire extraprofitti od essere anche in perdita (purché coprano i costi variabili), mentre nel lungo periodo l’unica situazione possibile è quella nella quale le imprese si trovano in equilibrio con l’uguaglianza di costi e ricavi.

Ma ora ci chiediamo cosa si intende per breve e lungo periodo. Intuitivamente i lettori si saranno già fatti un’idea. Il breve periodo si riferisce ad una situazione temporanea nella quale le imprese si possono trovare come già ripetuto in perdita o in extraprofitto. Il lungo periodo è invece una situazione destinata a perdurare nel tempo in seguito al raggiungimento di un equilibrio stabile. Le due situazioni sono ovviamente caratterizzate dal fattore tempo. Ma nella teoria economica i concetti di breve e lungo periodo non si riferiscono tanto al fattore tempo quanto alla possibilità che ha l’impresa di cambiare la sua dimensione.

Una situazione di breve periodo è caratterizzata dal fatto che l’impresa non ha la possibilità di modificare la sua dimensione e che di conseguenza avrà una determinata struttura dei costi fissi; ad esempio un determinato locale e un determinato numero di macchinari. Il lungo periodo invece è caratterizzato dal fatto che l’impresa ha la possibilità di cambiare la sua dimensione cambiando la struttura dei costi fissi; ad esempio un locale più grande ed un numero superiore di macchinari.

In ogni caso, la possibilità o meno di cambiare dimensione è sempre legata al fattore temporale in quanto si presume che l’impresa non possa fare cambiamenti radicali nell’immediato. Nel breve periodo, anche se l’impresa fosse in perdita, potrebbe sempre sperare di cambiare dimensione tornando in pareggio, in quanto i costi fissi medi diminuirebbero all’aumentare della dimensione.

Immaginiamo che un imprenditore decida di raddoppiare la dimensione della sua impresa; non per questo si imbatterà in un raddoppio dei costi fissi. Parte dei costi fissi è stata già pagata (licenze, brevetti, spese legali, spese di marketing…) mentre la spesa per macchinari e affitti dei locali aumenterà, ma meno che proporzionalmente. E’ probabile infatti che nell’acquisto di più macchinari l’imprenditore riesca a spuntare sconti vantaggiosi e potrebbe risultare dunque evidente che dopo un breve periodo di perdite, all’aumentare della sua dimensione, l’impresa possa scoprire di andare in pareggio o addirittura di percepire extraprofitti. In pratica si assiste nella realtà ad una graduale riduzione dei costi fissi medi (e di conseguenza dei costi medi) quando una impresa aumenta la sua dimensione (ricordiamo che CM = CFM + CVM). L’effetto dell’aumento della dimensione dell’impresa sui costi variabili è invece incerto. Da una parte il costo per le materie prime tende a diminuire in seguito agli sconti sulla quantità. Ma nei casi in cui l’impresa aumentando la sua dimensione non trovasse lavoratori sul mercato sarebbe costretta a ricorrere agli straordinari, i quali hanno l’effetto di far aumentare i salari più che proporzionalmente (un’ora di straordinario viene pagata normalmente più di un’ora di lavoro ordinario). Con riferimento a quanto detto analizziamo il grafico 6.4 A. Un’impresa opera inizialmente con una determinata dimensione che genera una curva del costo medio pari a CM1. Tale impresa è in perdita in quanto il prezzo p è inferiore alla curva del costo medio CM1. Ma l’impresa nel lungo periodo ha la possibilità di ingrandire la sua dimensione ed aumentare la quantità venduta. Supponiamo che raddoppiasse la sua dimensione e che per effetto della riduzione dei costi fissi medi si trovasse con una nuova curva del costo medio CM2. Anche in questo caso però l’impresa sarebbe in perdita in quanto il prezzo sarebbe inferiore al costo medio CM2. Ma se invece l’impresa avesse deciso di triplicare la sua dimensione si troverebbe con una curva del costo medio CM3 ancora più bassa. In questa situazione l’impresa sarebbe in equilibrio perché riuscirebbe a coprire tutti i costi. Come si vede dal grafico il prezzo di mercato è tangente alla curva CM3.

 

A) Costo Medio di Breve periodo

 

 

 

CM1

CM2

CM4 CM3

 

 

 

 

 

 

 

pd

 

 

 

 

 

P, C

B) Costo Medio di Lungo periodo CmL

Q

CML

 

 

 

 

 

 

 

pd

 

 

 

Figura 6.4 Costo medio di breve e lungo periodo

Q

 

50

Corso multimediale del Dott. Maurizio Matteo Dècina www.economiapolitica.it

 

Se invece, per un errore di valutazione, l’impresa quadruplicasse la sua dimensione si troverebbe con una curva del costo medio pari a CM4 e l’impresa sarebbe nuovamente in perdita perché il prezzo di mercato sarebbe inferiore a CM4. Come si vede dalla figura, all’aumentare della dimensione, la struttura dei costi medi decresce passando da CM1 a CM3 per effetto della riduzione dei costi fissi medi. Ma dopo una certa dimensione in poi può accadere che i costi medi siano più alti. Questo come già detto può dipendere dall’incremento più che proporzionale dei costi variabili.

Ciascuna delle quattro curve rappresentate nel grafico 6.4 A è una curva del costo medio di breve periodo a seconda di quella che è la dimensione iniziale dell’impresa. Ma se nel breve periodo l’impresa è vincolata alla dimensione, nel lungo periodo questa ha la possibilità di scegliere una delle quattro dimensioni illustrate e risulterà che il costo medio sarà rappresentato dall’insieme delle curve di costo medio di breve periodo. L’impresa, dopo alcuni aggiustamenti, sceglierà nel lungo periodo la dimensione CM3.

Nel grafico 6.4 B è illustrato il costo medio di lungo periodo dell’impresa il quale risulterà dalla somma dei tratti più bassi delle curve di costo medio di breve periodo. Infatti, nel lungo periodo, essendo libera di scegliere la dimensione che vuole, l’impresa è come se si trovasse contemporaneamente di fronte alle quattro curve, la cui unione coincide con la curva del costo medio di lungo periodo CML. La curva del costo marginale di lungo periodo CmL interseca la curva CML nel suo punto di minimo. La quantità ottimale di lungo periodo sarà quella in corrispondenza dell’uguaglianza tra prezzo, costo marginale e costo medio di lungo periodo con la scelta della dimensione CM3.

 

 

1.5 Equilibrio dell’impresa monopolistica

Abbiamo visto nell’ultimo capitolo che la concorrenza perfetta nella realtà non esiste. I monopoli al contrario esistono e rappresentano l’estremo opposto di un regime di concorrenza perfetta.
La parola monopolio viene dal greco ed è composta da due termini, il primo è Monos () che significa uno solo, il secondo è Poleo () che significa vendere; alla lettera monopolio significa un solo venditore.

Si ha un monopolio quando nella produzione di un determinato bene è presente un’unica impresa che assorbe tutta la domanda del mercato. Questa ovviamente gode di un enorme potere in virtù del fatto che non ha concorrenti o rivali che possano erodere i suoi extraprofitti. Il potere di mercato dell’impresa è infatti massimo. Facciamo un esempio estremo tanto per entrare nel tema supponendo che in un deserto ci sia unicamente un pozzo. Il proprietario del pozzo avrà un grosso potere nella contrattazione del prezzo, e potrà risultare possibile che il prezzo di vendita di un bicchiere d’acqua sia elevatissimo.

TABELLA 1.5

Ma se i pozzi fossero due o più la cosa sarebbe ben diversa, in quanto a meno che non si verificasse un accordo tra i proprietari dei pozzi, quest’ultimi entrerebbero in concorrenza con il risultato che il prezzo sarebbe notevolmente più basso. Risulta

 

 

 

 

 

Prezzo

 

Quantità

 

Ricavo totale

 

Ricavo marginale

 

10

 

1

10

 

10

 

 

9

 

2

 

18

 

8

 

8

 

3

 

24

 

6

 

7

4

 

28

 

 

4

 

6

 

5

 

30

 

2

 

5

 

6

 

30

 

0

 

 

 

dunque evidente che un’unica impresa, per il fatto di essere la sola a vendere il prodotto sul mercato, ha un enorme potere nella determinazione del prezzo. Illustriamo graficamente una situazione di monopolio. Ci domandiamo come prima cosa quale sarà la curva di domanda che l’impresa monopolista si trova a fronteggiare. Essendoci solo un’impresa, tutta la domanda dei consumatori è rivolta nei confronti di questa impresa. La domanda dell’impresa coincide dunque con la domanda dell’intero mercato che come abbiamo studiato nel primo capitolo è rappresentabile con una retta decrescente.

Ma prima di stabilire la quantità ottimale prodotta dall’impresa in monopolio, dobbiamo introdurre il concetto di ricavo marginale. Il ricavo marginale è il ricavo aggiuntivo apportato dall’unità addizionale di prodotto venduta dall’impresa. Nella figura 5.1 è illustrata una normalissima curva di domanda i cui riferimenti numerici si riferiscono alla tabella 5.1.

Se la curva di domanda dell’impresa non è costituita da una retta orizzontale ma è inclinata negativamente, si ha che il ricavo marginale è una curva distinta che si trova al di sotto della curva di domanda.

P, Rm

10 9

8

7

6

5

4

3

2

1

0
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

 

 

 

 

 

 

                 
                 
                 
                 
                 
                 
                 
                D
                 
          Rm      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 1.5 Costruzione del ricavo marginale

Q

La curva del ricavo marginale è sottostante alla curva di domanda poiché per vendere una unità addizionale l’impressa deve ridurre il prezzo. Guardando la tabella si potrà facilmente capire quanto scritto. Ad un prezzo di 10 i consumatori domanderanno 1 unità di prodotto, che è quella che venderebbe l’impresa che in questo caso avrebbe un ricavo paria a 10. Se l’impresa volesse vendere 2 unità di prodotto dovrebbe abbassare il prezzo da 10 a 9 con ricavi totali pari a 18. In questo caso il ricavo marginale della seconda unità venduta sarebbe pari a 8.
Una volta tracciata la curva del costo marginale possiamo stabilire la condizione di equilibrio dell’impresa in Monopolio. L’impresa in monopolio produrrà quella quantità in corrispondenza della quale il costo marginale è uguale al ricavo marginale.

Rm = Cm

Il ragionamento è simile a quello illustrato nel paragrafo 2.4 (figura 2.1 C). L’impresa produrrà quantità addizionali se il loro ricavo marginale è superiore al costo marginale. Per quantità inferiori a quella di equilibrio il costo marginale è inferiore al ricavo marginale e si ha incentivo a produrre ulteriori quantità in quanto su queste l’impresa sperimenta un guadagno (essendo i ricavi marginali superiori ai costi marginali). Ma quando il costo marginale supera il ricavo marginale l’impresa non ha più convenienza a produrre in quanto il costo di produzione di una unità in più di prodotto è superiore al ricavo marginale che tale unità reca all’impresa.

 

 

A) Quantità ottimale prodotta

Cm

D

Figura 2.5 Impresa in Monopolio

Nella Figura 2.5 è rappresentata la condizione di una impresa che opera in regime di monopolio. La Curva di domanda dell’intero mercato D coincide con la curva di domanda che si trova di fronte l’impresa, in quanto questa è la sola a produrre. L’impresa (Figura 2.5.A) produrrà fino a quando il ricavo marginale della quantità prodotta è superiore od uguale al costo marginale. La quantità ottimale q* è quella in corrispondenza dell’uguaglianza tra ricavo marginale e costo marginale (punto a). Se l’impresa producesse una quantità superiore a quella ottimale avrebbe delle perdite su

 

 

 

P,C

p*

B) Extraprofitti dell’impresa

Cm

c b

D
q* Q q* Q

P,C

p*

CM

CM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a

 

 

 

 

 

a

 

 

Rm

Rm

 

 

 

 

tutte le unità addizionali in quanto oltre la quantità q* il costo marginale delle unità successive è superiore al ricavo marginale. Analogamente, se l’impresa producesse una quantità inferiore a quella di equilibrio q* l’impresa avrebbe sempre la possibilità di guadagnare di più producendo tutte quelle unità di prodotto addizionali che hanno un costo marginale inferiore al ricavo marginale. Quale sarà il prezzo di vendita della quantità q*? L’impresa venderà la quantità q* al prezzo di domanda dei consumatori. Il punto c sulla curva di domanda indica infatti che la quantità q* verrà domandata in corrispondenza di un prezzo p*, che è appunto il prezzo al quale l’impresa monopolista venderà il prodotto. Per vedere graficamente il risultato economico dell’impresa (profitti e perdite) bisogna disegnare la curva del costo medio. Nella figura 2.5.B sono illustrati gli extraprofitti dell’impresa monopolista. Come abbiamo studiato nel capitolo precedente gli extraprofitti sono dati dalla differenza tra ricavi e costi totali. I ricavi totali si ottengono moltiplicando la quantità per il prezzo e sono graficamente rappresentati dal rettangolo O-q*-p*-c. I costi totali si ottengono moltiplicando il costo medio per la quantità e graficamente sono rappresentati dal rettangolo O-q*- CM-b. La differenza tra i due rettangoli è rappresentata dal rettangolo colorato CM- b-p*-c che rappresenta appunto i profitti. Tali extraprofitti sono destinati a persistere per lungo tempo. E’ intuitivo infatti che un’azienda in monopolio non può che sperimentare extraprofitti in conseguenza del suo enorme potere di mercato. In regime di Monopolio gli extraprofitti dell’impresa sono destinati a persistere in quanto non ci sono aziende concorrenti.

2.5 Argomentazioni contro e a favore del monopolio

Abbiamo visto che in un regime di monopolio l’impresa abusa del suo potere con il risultato di generare inefficienze nella produzione. Guardando la figura 3.5 ci possiamo rendere conto di quanto detto.

 

P,C

Figura 3.5 Inefficienza del Monopolio

Cm

D

 

 

 

c

q1 q2

 

p1
p2 h

 

 

 

 

 

 

a

 

Rm

 

 

 

Q

Se l’impresa determinasse la quantità da produrre in base all’uguaglianza tra costo marginale e prezzo di domanda (punto h), come nel caso della concorrenza perfetta, la quantità prodotta q2 sarebbe superiore a quella prodotta in monopolio (q1), ed il prezzo concorrenziale p2 sarebbe inferiore al prezzo di monopolio (p1).
La collettività nel suo complesso si troverebbe in una situazione migliore con una quantità maggiore ed un prezzo minore.

Anche se in questa sede non è possibile approfondire il tema, è intuitivo che un regime di monopolio costituisce un regime di produzione inefficiente. Questa è la più grande critica che si muove nei confronti dei monopoli.

Ma c’è anche chi sostiene che i monopoli abbiano dei pregi. Le imprese in monopolio sono le uniche che si possono permettere di investire ingenti somme di denaro in ricerca e sviluppo. Un’impresa in concorrenza perfetta al contrario non dispone in nessun modo di fondi da reinvestire in quanto nel lungo periodo i suoi ricavi sono perfettamente uguali ai suoi costi. Sono proprio gli extraprofitti del monopolista che in quanto extra possono essere reinvestiti al fine di migliorare il processo di produzione. Pensiamo ad esempio al colosso della Microsoft. Ogni anno sul mercato vengono lanciati nuovi prodotti, il più delle volte si tratta degli stessi prodotti con leggere modifiche che migliorano la qualità complessiva del servizio offerto. Il processo di miglioramento è comunque continuo. Chi utilizza windows 2010 si può rendere conto delle differenze con windows 2000 o con le versioni precedenti. Il miglioramento è dovuto alle grandi spese sostenute per finanziare la ricerca e lo sviluppo tecnologico all’interno dell’azienda. Si racconta che i programmatori della microsoft passino la metà dei giorni dell’anno in ville straordinarie nelle isole tropicali. Infatti, in quella condizione, si racconta, possono sfruttare al massimo la loro creatività e concorrere al meglio al processo innovativo. Al di là dei racconti, la verità rimane comunque nel fatto che tutte le grandi aziende investono molto nelle risorse umane e nella ricerca.

 

 

1.6 Molte imprese che vendono prodotti simili

Nella realtà il regime di mercato più diffuso è quello della concorrenza imperfetta chiamata anche concorrenza monopolistica. Una situazione economica a metà tra i due casi estremi finora studiati: il monopolio e la concorrenza perfetta.

La maggior parte dei mercati (automobili, abbigliamento, alimentari, detersivi, sigarette…) è costituito da molti venditori che vendono prodotti simili. Tali prodotti non sono perfettamente identici come nella concorrenza perfetta ma presentano delle diversità. Queste, possono essere piccolissime, come nel caso della Coca cola e della Pepsi cola, o possono essere anche rilevanti, come nel caso delle automobili. Ogni impresa, per il fatto di vendere un prodotto diversificato e non identico a quello dei concorrenti, è come se si trovasse di fronte una curva di domanda specifica come nel caso del monopolio. Ma la differenza con il regime di monopolio è che, essendo i beni molto simili, le imprese entrano tra loro in concorrenza. Da qui il nome di concorrenza monopolistica.

Prendiamo in considerazione, ad esempio, il mercato delle sigarette. Questo è composto da numerose imprese che vendono prodotti simili ma leggermente diversificati. La diversificazione può risiedere sia nelle caratteristiche intrinseche del prodotto (sapore, colore, morbidezza,…) che estrinseche (colore della scatola, nome del prodotto, pubblicità,..). I fumatori abituali fumano di solito sempre le stesse sigarette e per queste, farebbero anche diversi chilometri a piedi se non si trovassero nella tabaccheria sotto casa. Ma se il prezzo di queste raddoppiasse rispetto a tutte le altre, la maggior parte dei fumatori incomincerebbe a fumare sigarette di altre marche. Se ad esempio il prezzo delle Marlboro Lights superasse di molto quello delle altre sigarette, gran parte dei fumatori abituali delle Marlboro Lights sarebbe costretto a passare alle Camel Lights o alle Philips Morris.

E’ come se ogni impresa avesse una propria domanda di mercato specifica, espressa dai consumatori che hanno la preferenza per quel determinato prodotto (Marlboro Lights); ma le imprese si trovano in concorrenza fra loro, in quanto i consumatori possono scegliere da un momento all’altro di comprare il prodotto concorrente (Camel Lights).

Facciamo ancora un semplicissimo esempio tornando per un istante in un regime perfettamente concorrenziale. Immaginiamo che nel mercato dei quaderni di scuola ci siano tutte le caratteristiche della concorrenza perfetta. Tutte le imprese vendono quaderni perfettamente identici con la copertina completamente bianca. Le imprese in questo caso, non hanno una specifica curva di domanda, in quanto per i consumatori è indifferente acquistare dall’una o dall’altra impresa. La curva di domanda dell’impresa in concorrenza perfetta è infatti rappresentata da una retta orizzontale in corrispondenza del prezzo di equilibrio del mercato. Tale retta indica che le imprese, non avendo una specifica quantità domandata del loro prodotto, possono vendere la quantità che desiderano al prezzo di mercato (che è identico per tutte le imprese).

Ma supponiamo ora che una delle numerose imprese diversificasse il prodotto mettendo in copertina i disegni dell’Uomo Ragno. Tutti i bambini appassionati dell’Uomo Ragno non saranno più indifferenti nell’acquisto di quaderni ma esprimeranno una preferenza concreta nell’acquisto esclusivo di quel quaderno. L’impresa diversificando il prodotto riesce così a ritagliarsi una sua specifica curva di domanda. L’impresa che ha diversificato il prodotto godrebbe ora di extraprofitti in quanto si troverebbe in una situazione di quasi monopolio in quanto sarebbe la sola a vendere un prodotto diverso da quello venduto dalle imprese concorrenti.

Ma le altre imprese non stanno certo a guardare: nel giro di poco tempo imiterebbero l’idea della prima impresa e produrrebbero quaderni con altri disegni (Hulk, Devil, Thor, I Fantastici Quattro,…). Ciascuna impresa riuscirebbe così a ritagliarsi una sua propria curva di domanda a seconda delle preferenze dei consumatori per i personaggi disegnati. Il regime di mercato da perfettamente concorrenziale quale era in principio si trasformerebbe in un regime di concorrenza imperfetta o monopolistica in quanto ogni impresa avrebbe un suo proprio mercato con una relativa curva di domanda. Ma non si tratta certo di monopolio in quanto i prodotti sono molto simili e le imprese sono in continua concorrenza tra loro. Se gli appassionati dell’Uomo Ragno scoprissero che i quaderni con i Fantastici Quattro costassero meno, forse deciderebbero di cambiare preferenza.

2.6 L’impresa in concorrenza monopolistica nel Breve Periodo

La rappresentazione grafica dell’equilibrio di una impresa in concorrenza monopolistica è simile alla rappresentazione di una impresa in monopolio. L’unica cosa che cambia è la rappresentazione della domanda. Nel caso del monopolio la curva di domanda che si trova di fronte l’impresa si riferisce all’intero mercato, ovvero la curva di domanda dell’impresa coincide con quella dell’intero mercato. Nel caso della concorrenza monopolistica, essendoci molti venditori, si ha che la curva di domanda dell’impresa è solo una piccola frazione della curva di domanda complessiva dell’intero mercato. Ad esempio, la domanda di quaderni con l’Uomo Ragno rappresenta solo una piccola parte della domanda complessiva di quaderni.

Nella Figura 1.6 è rappresentato l’equilibrio di breve periodo di un’impresa in concorrenza monopolistica. Il grafico è identico a quello del monopolio.
L’impresa in concorrenza monopolistica si trova di fronte ad una specifica domanda d da parte dei consumatori. Tale domanda rappresenta solo una piccola frazione della domanda complessiva del mercato in questione. Tracciando le curve del costo marginale e del ricavo marginale l’impresa stabilisce di produrre la quantità ottimale q*, quella in corrispondenza dell’uguaglianza tra costo e ricavo marginale (punto a). L’impresa venderà la quantità q* al prezzo p* che è il prezzo di domanda da parte dei consumatori (punto c). Tracciando la curva del costo medio si possono evidenziare gli extraprofitti che sperimenta l’impresa rappresentati dal quadrato colorato.

Ma la situazione illustrata nella figura 1.6 non può durare per lungo tempo. Infatti, in un mercato in concorrenza monopolistica le imprese che sperimentano extraprofitti attirano altre imprese che hanno la speranza di perseguire extraprofitti producendo prodotti simili. L’entrata sul mercato di altre imprese comporta una riduzione della domanda delle imprese presenti con la conseguente riduzione degli extraprofitti. Il ragionamento è identico a quello condotto per la concorrenza perfetta dove nel lungo periodo gli extraprofitti si annullano. In regime di monopolio invece, la persistenza degli extraprofitti è causata dall’assenza perpetua di concorrenti.

 

 

P,C

p*

CM

c

b

q*

Cm
CM

 

 

 

 

 

 

 

 

 

a

 

 

 

d Rm

 

 

 

Q

Figura 1.6 Impresa in concorrenza monopolistica nel Breve periodo

Torniamo al nostro esempio dei quaderni di scuola. Supponiamo che l’Uomo Ragno dopo molti anni torni di moda e che l’impresa che produce quaderni con i disegni dell’Uomo Ragno sperimenti nel breve periodo ingenti extraprofitti, mentre altre imprese che producono quaderni con altri disegni hanno profitti più bassi o addirittura sono in perdita. Quest’ultime, non avendo molte difficoltà a cambiare i disegni di copertina, troverebbero più conveniente vendere quaderni con la copertina dell’Uomo Ragno, in quanto in quel momento è il prodotto che tira di più.

In questo caso, la nostra impresa, si trova così a dividersi la vendita dei quaderni dell’Uomo Ragno con altre imprese con il risultato che la sua domanda specifica si riduce provocando una riduzione degli extraprofitti. E’ possibile anche che tutte o la maggior parte delle imprese che producono quaderni sperimentino nel breve periodo extraprofitti. Ci sarà di conseguenza, una grande entrata di nuovi concorrenti che prima producevano in altri mercati attratti dagli extraprofitti. Nella figura 2.6 è rappresentato ciò che accade alla curva di domanda di una impresa in concorrenza monopolistica quando si ha un entrata sul mercato di nuovi concorrenti. La domanda d che inizialmente si trova di fronte l’impresa si riduce. La nuova curva di domanda è rappresentata dalla curva d’. Di conseguenza, anche la curva del ricavo marginale si riduce passando da Rm a Rm’. Ma la curva di domanda si ridurrà fino a quando cesseranno di entrare sul mercato nuovi concorrenti. I concorrenti entreranno sul mercato fino a quando ci saranno extraprofitti; quando questi si annullano, cesserà anche la convenienza ad entrare in quel mercato. Ne consegue che la curva di domanda dell’impresa si ridurrà fino al punto in cui si annulleranno gli extraprofitti. Tale situazione è ora stabile (situazione di lungo periodo) in quanto non ci saranno né imprese in perdita né in extraprofitto e di conseguenza non ci sarà convenienza ad entrare o ad uscire dal mercato.

Nella figura 3.6 è rappresentata la condizione di equilibrio di una impresa in concorrenza monopolistica nel lungo periodo. La curva di domanda si riduce, per l’effetto dell’entrata dei nuovi concorrenti, fino al punto di tangenza con la curva del costo medio (punto b’). Infatti, se si osserva la figura, si vede che l’intersezione del costo marginale con il nuovo ricavo marginale Rm’ (punto a’) genera una nuova quantità di equilibrio q*’ in corrispondenza della quale ricavi totali e costi totali sono identici, infatti il nuovo prezzo p*’ è uguale al nuovo costo medio CM’.

 

 

P

 

 

 

 

 

 

Rm’Rmd’ d

Q

 

 

Figura 2.6 concorrenti

P,C

p*’= CM’

Riduzione della domanda dell’impresa in seguito all’entrata di nuovi

 

 

 

 

 

 

b’

Cm
CM

Q

 

 

 

a’
Rm’ d’

q*’

 

 

 

 

Figura 3.6

Impresa in concorrenza monopolistica nel lungo periodo

Come si vede dal grafico l’impresa non sperimenta extraprofitti, anche se riesce a coprire tutti i costi e consente all’imprenditore di percepire una remunerazione normale (profitto medio del settore). Nel lungo periodo dunque, in un regime di concorrenza monopolistica gli extraprofitti delle imprese si annullano in seguito all’entrata di nuovi concorrenti.

 

 

 

 

 

1.7 Tipi di Oligopolio

Anche il termine oligopolio viene dal greco Oligos (), che significa poco, ed indica un regime di mercato dove sono presenti poche imprese che offrono lo stesso bene. Possiamo distinguere a priori tre tipologie fondamentali di oligopolio:

·  Oligopolio collusivo

·  Oligopolio concorrenziale

·  Oligopolio con impresa dominante 
Si versa in regime di oligopolio collusivo quando le poche imprese presenti sul mercato riescono a raggiungere un’intesa riguardante prezzi e quantità di vendita. Ci troviamo di fronte ad una situazione molto simile a quella che si verifica quando sul mercato opera una sola impresa (monopolio). 
In certe circostanze, le imprese hanno tutta la convenienza a raggiungere accordi collusivi (chiamati anche cartelli), in quanto in tal modo eludono l’effetto principale della concorrenza rappresentato dalla riduzione dei prezzi. Abbiamo visto in precedenza che in regime di monopolio l’impresa, non avendo concorrenti, poteva di fatto fissare un prezzo di vendita del prodotto più alto rispetto a situazioni concorrenziali. Tale situazione può essere riprodotta attraverso cartelli collusivi dove le imprese produttrici si accordano per vendere lo stesso bene allo stesso prezzo, che sarà molto vicino a quello che si verificherebbe in una situazione di monopolio. A livello analitico, il grafico che rappresenta una situazione di oligopolio collusivo è identico a quello raffigurante una situazione di monopolio. E’ come se le imprese si fondessero in una sola impresa con la conseguenza di avere una specie di Monopolio. Nella realtà esistono molti casi di oligopolio collusivo. Anni fa un volo Roma- Barcellona veniva offerto allo stesso prezzo da Alitalia e da Iberia. Le due imprese avevano ovviamente tutta la convenienza a raggiungere un accordo, in quanto così facendo avrebbero di fatto evitato una possibile guerra dei prezzi. 
Immaginiamo infatti che la tratta Roma-Barcellona sia coperta solamente da due imprese, Alitalia e Iberia. Supponiamo che la tariffa piena praticata da entrambe le compagnie sia di 200 euro. Se l’amministratore delegato dell’Alitalia volesse accaparrarsi una quota di mercato maggiore e decidesse così di ridurre il prezzo della tratta da 200 euro a 150 euro, sicuramente si potrebbe aggiudicare facilmente l’intero mercato, in quanto tutti i consumatori italiani e spagnoli avrebbero convenienza a viaggiare esclusivamente con Alitalia. Il giorno successivo però, l’amministratore delegato di Iberia, per non perdere la clientela acquisita, ridurrebbe il prezzo della stessa cifra praticata da Alitalia. Ma potrebbe anche succedere che Iberia, spaventata dall’azione di Aliatlia, diminuisca il prezzo da 150 a 140 per conquistare l’intero mercato o per un’azione di ritorsione. In tal caso Alitalia sarebbe ora costretta a ridurre il prezzo a 140. Quale è il risultato di questa guerra dei prezzi per le due imprese? Le quote di mercato restano invariate mentre i profitti delle due imprese si dimezzano.

E’ dunque evidente la convenienza per entrambe le imprese a raggiungere un accordo per mantenere il prezzo a 200 euro, rinunciando all’accaparramento di quote superiori di mercato. Supponiamo ora che un terzo concorrente entri sul mercato delle tratte aeree Roma-Barcellona, ad esempio Virgin o Easy Jet. A questo punto Alitalia e Iberia continuerebbero probabilmente ad avere convenienza ad includere nel cartello anche quest’ultimo, pur rinunciando a quote di mercato a favore della terza impresa. Ma quando il numero delle imprese aumenta, la convenienza a raggiungere accordi diminuisce in quanto le imprese non si accontentano di una piccola quota di mercato, ma cercano il più possibile di conquistare ulteriori quote. Inoltre, diventa anche più complesso realizzare e gestire accordi collusivi. Vigendo nei diversi Paesi severe leggi antitrust, fare accordi è proibito e spesso accade che questi siano taciti. L’oligopolio della telefonia mobile, costituito da quattro imprese (Tim, Vodafone, Wind, Tre), rappresenta forse uno dei casi più interessanti di oligopolio concorrenziale. E’ sufficiente vedere i bombardamenti televisivi nelle ore di punta o scorgere tra le numerose riviste le intere pagine che pubblicizzano tariffe, sconti, agevolazioni e promozioni di ogni genere. E’ come se il consumatore assistesse ad una partita di tennis dove a botta e risposta i vari concorrenti si fanno guerra sulle tariffe e sui servizi offerti. Di recente sono entrati nel mercato anche operatori virtuali quali ad esempio Poste Mobile che pur non possedendo le infrastrutture di rete possono ugualmente erogare servizi di telefonia mobile.

Ci si può infatti chiedere se sono più basse le tariffe di Vodafone o quelle di Wind, o analogamente quelle di Tim o quelle di Tre; riuscire a dare una risposta univoca è quasi impossibile visto che esistono più di venti tariffe diverse che diminuiscono di mese in mese. Ma la concorrenza, sembrerà paradossale, non è solo nelle tariffe e nei servizi, ma anche nell’immagine che il gestore vuole dare di sé negli spot televisivi. Alle provocanti e spregiudicate modelle della Omnitel (oggi Vodafone) la Tim era solita rispondere con ragazzine acqua e sapone che attiravano segmenti di mercato differenti. Spesso infatti, accade che il consumatore scelga l’operatore semplicemente in base alle mode del momento o alla bellezza delle modelle che pubblicizzano il prodotto.

Un caso particolare di oligopolio si presenta quando un’impresa ha una quota di mercato molto grande in rapporto alle altre. Di conseguenza, gli equilibri e le decisioni di tutti in concorrenti sono vincolate ai piani di questa. Spesso accade infatti che l’impresa dominante venda il bene ad un determinato prezzo e tutti gli altri concorrenti vendano il proprio prodotto allo stesso prezzo stabilito dall’impresa dominante. Questo avviene perché i concorrenti hanno timore delle possibili conseguenze alle quali andrebbero incontro qualora vendessero ad un prezzo inferiore. Alle restanti imprese conviene infatti il più delle volte seguire tacitamente le decisioni dell’impresa dominante per evitare una guerra dei prezzi.

Ma la situazione è molto diversa rispetto al caso dell’oligopolio collusivo dove i taciti accordi hanno caratteristiche di stabilità. E’ possibile che da un momento all’altro l’impresa dominante decida di ridurre i prezzi per conquistare l’intero mercato e spazzare via il resto delle imprese, così come è possibile che le imprese concorrenti, non accontentandosi più di piccole quote, abbiano pianificato riduzioni di prezzo per conquistare quote aggiuntive di mercato nei confronti dell’impresa dominante. L’oligopolio con impresa dominante può presentare infatti sia caratteristiche collusive che concorrenziali a seconda della fase economica del mercato ed in relazione al settore. Un caso di oligopolio con impresa dominante è costituito dal mercato dei sistemi operativi per personal computer. Oggi la Microsoft con il programma

Windows possiede circa il 90% del mercato. Il restante 10% è coperto da altre tre imprese tra le quali la Machintosh che da anni fa concorrenza alla Microsoft con il programma Apple. In questo particolare caso il grado di concorrenza è molto elevato in quanto tutti i concorrenti in gioco si trovano di fronte ad un mercato molto giovane che ancora non ha raggiunto la fase di maturità.

Un esempio di oligopolio con impresa dominante poco concorrenziale e piuttosto collusivo è quello del mercato dei fast food. Mc Donalds domina il mercato avendo una serie di concorrenti quali Burghy o Burgher King.
Quest’ultimi non hanno nessuna convenienza a fare concorrenza con l’impresa dominante, temendo riduzioni di prezzo che comprometterebbero i loro extraprofitti. Analogamente, neanche Mc Donalds ha la convenienza a ridurre i prezzi in quanto reputa più vantaggioso mantenerli alti piuttosto che incrementare la quantità venduta. Il consumatore può notare infatti che un Big Mac costa esattamente quanto un Big Burghy o un King Burg, e che il prezzo di questi non è cambiato di molto nel corso degli ultimi anni. Se infatti in tale mercato ci fosse stato lo stesso livello di concorrenza presente nel mercato della telefonia mobile, il prezzo di un Big Mac sarebbe diminuito di due o tre volte tanto passando ad esempio da 3 a 1 euro, prezzo che assicurerebbe ancora enormi margini di extraprofitto per le imprese.

La collusione che avviene in questi casi non è esplicita, come ad esempio quella che può avvenire tra l’amministratore di Alitalia e quello di Iberia (in seguito ad una semplice telefonata), ma è tacita. Nel senso che una volta che l’impresa dominante fissa il prezzo, tutte le altre imprese, se decidono di colludere, seguono senza esitazioni tale decisione.

2.7 l’Oligopolio con curva di domanda ad angolo

La rappresentazione grafica di un regime di Oligopolio è molto problematica in quanto l’Oligopolio come abbiamo visto può presentarsi in diverse forme.
La rappresentazione grafica di un Oligopolio collusivo è identica a quella del monopolio in quanto le imprese che partecipano ad un cartello è come se costituissero un’unica impresa. Più complesse invece sono le rappresentazioni di un Oligopolio concorrenziale, che per una intera trattazione è possibile approfondire in corsi avanzati di microeconomia.

Una rappresentazione dell’oligopolio molto utilizzata dai manuali di Economia Politica è quella dell’oligopolio con curva di domanda ad angolo. Gli autori di questo modello hanno criticato molto la teoria economica tradizionale (quella stessa che abbiamo rappresentato fino adesso) in quanto sostengono che le imprese in regime di oligopolio non seguano criteri di massimizzazione dei profitti che si basano sul confronto tra costi e ricavi marginali.

Nei capitoli precedenti abbiamo visto che le imprese trovano convenienza a produrre quella quantità in corrispondenza della quale il costo marginale è uguale al ricavo marginale. Prezzi e quantità si determinano infatti nella teoria tradizionale in base all’uguaglianza tra costi e ricavi marginali.

Ma spesso i manager delle imprese non conoscono nemmeno il significato di tali termini ed è molto raro che si mettano a misurare quantità per quantità costi e ricavi marginali. Le imprese utilizzerebbero invece un altro modo, che è quello più utilizzato nella realtà. Per determinare il prezzo di vendita si affiderebbero infatti al criterio del costo pieno o Mark Up (margine) che in sostanza indica semplicemente questo: il prezzo di un prodotto deve essere tale da poter coprire tutti i costi di produzione e da assicurare un margine di profitto calcolato come percentuale sui costi.
Facciamo un semplicissimo esempio. Immaginiamo una impresa che abbia un costo medio di 100 su una determinata quantità prodotta e voglia percepire un margine di profitto del 20%; quest’ultima deve vendere il prodotto a 120. Con un prezzo di 120 l’impresa riesce infatti a coprire tutti i costi ed a assicurare un profitto su ogni unità di 20 che espresso in percentuale sui costi.

Se la stessa impresa cambiasse idea e volesse percepire un margine di profitto maggiore, ad esempio del 30%, dovrebbe vendere il prodotto a 130.
Le imprese dunque, una volta stabilità intuitivamente la quantità da produrre, determinerebbero il prezzo di vendita in base al costo medio di produzione e al margine di profitto stabilito. Questo si stabilisce in base alle congiunture economiche e alle decisioni dei manager e spesso, ogni settore economico ha un suo margine medio di profitto, e avviene che le imprese si adeguino a tale misura nel determinare il prezzo.La formula sintetica per la determinazione del prezzo attraverso il criterio del mark up è la seguente:

P = w/ * (1+m)

Dove w è il salario, p la produttività del lavoro ed m il margine di profitto espresso come percentuale. Il Primo termine (w/indica il costo medio di produzione di una unità di prodotto in termini di lavoro. Supponiamo che i lavoratori di una impresa producano costantemente 10 unità di prodotto al giorno ( con un salario giornaliero di 1.000 (w = 1.000). Si ha che il costo di ogni unità è di 100 (1.000/10 = 100). Ogni unità prodotta costa infatti all’impresa 100. Ma l’impresa deve percepire un profitto e non può dunque vendere il prodotto a 100. Se l’impresa decidesse di percepire un margine del 20% (m = 20%) dovrebbe vendere il prodotto a 120. Infatti si avrebbe che:

P = 1000/100 * (1 + 20%) = 100 * (1+ 0,2) = 100 * (1,2) = 120

Una volta chiarito il metodo con il quale le imprese determinano il prezzo di vendita del prodotto sorge un altro problema. E’ molto problematico infatti determinare, in regime di oligopolio, la curva di domanda che ciascuna impresa si trova di fronte.
In regime di monopolio questo problema non sussiste in quanto la curva di domanda dell’impresa coincide con quella dell’intero mercato. In regime di concorrenza perfetta, essendo il prezzo dato dal mercato totale, la curva di domanda delle imprese è costituita da una retta orizzontale in corrispondenza del dato prezzo.Mentre in concorrenza monopolistica ogni impresa, vendendo un prodotto diversificato, è come se si trovasse in un suo proprio mercato specifico con una determinata domanda da parte dei consumatori.

Nel caso dell’oligopolio concorrenziale invece, essendoci pochi venditori che vendono lo stesso prodotto, la domanda che si trova di fronte ciascuna impresa non è ben definita. Questa stessa risulta infatti molto sensibile alle decisioni ed ai comportamenti delle imprese concorrenti. E’ come se l’impresa si trovasse di fronte ad una curva di domanda non lineare. Ma vediamo passo per passo la costruzione grafica riportata nella Figura 1.7. Il grafico illustrato da tutti i manuali è l’ultimo della figura, ma per una migliore comprensione disegniamo tre grafici preliminari.

L’impresa determina il prezzo di vendita in base al criterio del mark up (Figura 1.7.A). Si suppone per semplicità che il prezzo praticato dall’ impresa sia identico al prezzo praticato dalle imprese concorrenti. A quel prezzo (pA) i consumatori domandano sul mercato una data quantità di prodotto (qA).

Una volta definita la quantità domandata in corrispondenza del prezzo di mark up (Punto A) diventa problematico tracciare la curva di domanda che si trova di fronte l’impresa. Infatti, è come se l’impresa avesse due distinte curve di domanda che passano per il punto A, a seconda del comportamento delle imprese concorrenti.

Se infatti l’impresa decide di ridurre il prezzo da PA a PB, ed i concorrenti mantengono inalterato il loro prezzo, la quantità domandata dai consumatori può aumentare di molto, ad esempio da qA a qB. Questo avviene perché l’impresa pratica un prezzo più basso rispetto ai concorrenti che in questo caso perderebbero quote di mercato. Nel caso in cui i concorrenti mantengono invariato il prezzo iniziale, la curva di domanda dell’impresa è rappresentata dal segmento AB.

Ma nel caso in cui i concorrenti, per non perdere quote di mercato, riducono il loro prezzo di vendita nella stessa misura della riduzione del prezzo operata dall’impresa, l’incremento della quantità domandata, sperimentato dall’impresa, è sicuramente minore rispetto al caso precedente, in quanto l’impresa vende allo stesso prezzo dei concorrenti mentre prima vendeva ad un prezzo minore.

Graficamente, se i concorrenti seguono le mosse dell’impresa, una riduzione del prezzo da PA a PB comporta un incremento inferiore della quantità domandata, ad esempio da qA a qB’. In questo caso, la curva di domanda dell’impresa è rappresentata dal segmento AB’.

Supponiamo che l’impresa voglia invece aumentare il prezzo da PA a PC. Nel caso in cui i concorrenti non seguissero tale mossa l’impresa incorrerebbe in una grossa perdita della quantità domandata, ad esempio da qA a qC. Questo avviene perché l’impresa pratica un prezzo superiore a quello dei concorrenti. Nel caso in cui i concorrenti seguissero la mossa dell’impresa ed aumentassero il prezzo della stessa misura, l’impresa sperimenterebbe sempre una riduzione della quantità domandata, ma questa volta minore rispetto al caso precedente, ad esempio da qA a QC’.

A partire dal punto A, è come se esistessero due curve di domanda. Una, quella più elastica (CAB), si riferisce all’ipotesi in cui i concorrenti mantengano il loro prezzo invariato e non seguano le mosse dell’impresa. L’altra, quella più rigida (C’AB’), si riferisce all’ipotesi in cui i concorrenti seguano le mosse dell’impresa modificando il loro prezzo nella stessa misura. Per semplicità indichiamo con d1 la curva più elastica composta dai punti CAB e con d2 la curva più rigida composta dai punti C’AB’.

Ma il comportamento delle imprese rivali è semplicemente prevedibile: quando l’impresa riduce il prezzo, tutti i concorrenti, per non perdere quote di mercato, riducono il prezzo della stessa misura. Se invece l’impresa decide di aumentare il prezzo, nessuno dei concorrenti segue tale mossa in quanto a quest’ultimi conviene mantenere un livello di prezzo più basso per vendere una quantità maggiore. La conseguenza è che al di sotto del prezzo iniziale pA, determinato con il criterio del mark up, il tratto di curva di domanda che si trova di fronte l’impresa è costituito dal segmento AB’. Al di sopra del prezzo PA, il tratto di curva di domanda che si trova di fronte l’impresa è costituito dal segmento AC.

La curva di domanda dell’impresa è dunque rappresentata dalla spezzata CAB’. Nella Figura 1.7.B, che è una semplice ripetizione della Figura precedente, è stata appunto evidenziata la curva di domanda che l’impresa oligopolista si trova di fronte.

Come si vede dalla Figura la curva di domanda non è lineare ma presenta un angolo in corrispondenza del prezzo iniziale determinato con il criterio del mark up.
Anche il ricavo marginale non sarà costituito da una curva lineare. Nella figura 1.7.C sono state nuovamente tracciate le due ipotetiche curve di domanda d1 e d2 relative all’impresa. La prima, come già spiegato, si riferisce al caso in cui le imprese concorrenti seguano le mosse dell’impresa, la seconda si riferisce al caso in cui le imprese mantengano inalterato il loro prezzo di vendita. Per ciascuna delle due curve possiamo tracciare le relative curve del ricavo marginale Rm1 e Rm2. Ma abbiamo visto che al di sopra del prezzo iniziale PA la curva che interessa all’impresa è la curva d1 mentre al di sotto di tale prezzo la curva che interessa all’impresa è la curva d2.

 

 

A) Esistenza di due curve di domanda PP

B) Curva di domanda ad angolo

 

 

 

 

d1 C C’
pA A pA A

 

 

 

 

pC

pB

PP

d1

 

 

 

 

 

 

 

B’ B

qC qC’ qA qB’ qB Q
C) Esistenza di due curve del ricavo marginale

d2

 

 

 

 

 

 

 

d2

 

 

 

 

 

 

qA
D) Curva del ricavo marginale interrotta

 

Q

 

 

 

 

 

 

 

d1
pA Rm1 A pA Rm1

Rm2 d2

 

d1

 

 

 

 

A

Rm2 d2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

qA Q qA Q

Figura 1.7 La curva di domanda ad angolo dell’impresa oligopolista

Ne consegue che la curva del ricavo marginale sarà costituita da due tratti distinti: il primo si riferisce alla curva d1 mentre il secondo alla curva d2.
La curva del ricavo marginale dell’impresa è così costituito da due tratti non contigui che presentano una interruzione in corrispondenza della quantità qA (Figura 1.7.D).

 

 

P,C

pA

Cm

 

 

 

 

d1 Rm1

A

 

 

 

 

 

d2 qA

 

Rm2

 

 

Q

Figura 2.7 Impossibilita di determinare prezzi e quantità attraverso il criterio del costo marginale

Una volta stabilito che la curva di domanda dell’impresa oligopolista presenta un angolo e che di conseguenza il ricavo marginale ha un punto interrotto, ci sarebbe l’impossibilità di determinare prezzi e quantità di equilibrio in base al criterio tradizionale (Rm=Cm). In questo caso, la quantità prodotta sarebbe indeterminata in quanto il costo marginale non è mai uguale al ricavo marginale. Ne consegue che, nell’impossibilità di determinare prezzi è quantità attraverso il criterio tradizionale (Cm=Rm), le imprese si affidano alla determinazione del prezzo (e di conseguenza della quantità) attraverso il criterio del mark up.

Inoltre, guardando attentamente il grafico si deduce che all’impresa conviene in ogni modo produrre la quantità iniziale qA (determinata in seguito al criterio del mark up). Infatti, se l’impresa producesse una quantità superiore avrebbe delle perdite su tutte le unità superiori a qA in quanto il costo marginale di queste è di molto superiore al loro ricavo marginale. Se l’impresa producesse quantità inferiori a qA avrebbe dei mancati guadagni in quanto il ricavo marginale è di molto superiore al costo marginale.

Nella figura 3.7 sono rappresentati i profitti dell’impresa in regime di oligopolio che si ottengono tracciando la curva del costo medio. Anche nell’oligopolio gli extraprofitti delle imprese sono persistenti, anche se sono minori rispetto al caso del monopolio. In realtà, il disegno della curva del costo medio è del tutto superfluo in quanto l’impresa, avendo fissato il prezzo attraverso il criterio del mark up ha già pianificato i suoi extraprofitti.

P,C

pA

CM

Cm

CM

 

 

 

 

 

A

b

 

 

 

 

 

d qA

 

Rm

 

 

Q

Figura 3.7 Extraprofitti dell’oligopolista

3.7 Ripasso generale dei regimi di mercato

Negli ultimi quattro capitoli abbiamo affrontato il tema dei regimi di mercato. Abbiamo visto che la concorrenza perfetta è un caso ipotetico non corrispondente alla realtà. I monopoli al contrario esistono, ma la tendenza attuale è quella di una graduale regolamentazione atta a sminuire la posizione dominante con i relativi abusi. Il regime di mercato più diffuso nella realtà è la concorrenza monopolistica ma anche l’oligopolio è un regime molto diffuso, soprattutto nel settore delle telecomunicazioni.

 

 

 

 

 

1.8 Elasticità della domanda

In questo capitolo affronteremo il tema dell’elasticità della domanda. Abbiamo visto, studiando la curva di domanda, che al diminuire del prezzo aumenta la quantità domandata. L’elasticità misura il grado con cui la quantità domandata risponde alle variazioni del prezzo. Una domanda è elastica se la variazione percentuale della quantità è superiore alla variazione percentuale del prezzo. Se ad esempio una riduzione del 10% del prezzo del caffè producesse un aumento del 20% della quantità domandata di caffè si avrebbe una domanda elastica. Una domanda è anelastica se la variazione percentuale della quantità è inferiore alla variazione percentuale del prezzo. Se infatti una riduzione del 10% del prezzo del caffè provocasse un aumento del 5% della quantità domandata si avrebbe una domanda anelastica. Nel caso in cui la variazione percentuale del prezzo avesse provocato una identica variazione percentuale della quantità domandata si avrebbe una domanda ad elasticità unitaria. L’elasticità della domanda può essere sintetizzata dalla seguente formula.

Ed = Var. % Q / Var.% P

L’elasticità è il rapporto tra la variazione percentuale della quantità e la variazione percentuale del prezzo. Quando tale rapporto è maggiore di uno si dice che la domanda è elastica. Quando tale rapporto è inferiore a uno si dice che la domanda è anelastica. Quando tale rapporto è uguale ad uno si parla di elasticità unitaria della domanda. Tornando al nostro esempio, nel caso in cui la variazione della quantità del caffè fosse del 20%, a fronte di una riduzione del prezzo del 10%, si avrebbe una elasticità della domanda pari a 2 (20%/10% = 2). Nel caso in cui la variazione della quantità del caffè fosse del 5%, a fronte di una riduzione del prezzo del 10%, si avrebbe una elasticità della domanda pari a 0,5 (5%/10% = 0,5). Nel caso in cui la variazione della quantità del caffè fosse del 10%, a fronte di una riduzione del prezzo del 10%, si avrebbe una elasticità della domanda pari a 1 (10%/10% = 1). In termini analitici l’elasticità può essere espressa dalla seguente equazione:

Ed = DQ/Q / DP/P

La variazione percentuale della quantità di un bene è data dal rapporto tra la variazione della quantità (Q) ed il livello della quantità domandata (Q). Il livello della quantità domandata che si prende in considerazione risulterà da una media tra la quantità iniziale e quella finale. La variazione percentuale del prezzo di un bene è data dal rapporto tra la variazione del prezzo (P) ed il livello del prezzo (P). Il livello del prezzo che si prende in considerazione è dato dalla media tra il prezzo iniziale ed il prezzo finale. Nella figura 1.8 sono illustrate delle diverse curve di domanda. La prima è una curva di domanda elastica in quanto, nella maggior parte dei tratti della curva, una piccola variazione percentuale del prezzo genera una grande variazione percentuale della quantità domandata. La seconda è una curva di domanda anelastica o rigida dove, nella maggior parte dei tratti della curva, la variazione percentuale della quantità domandata è molto piccola rispetto ad una variazione percentuale del prezzo. Il terzo ed il quarto caso rappresentano due situazioni limite. Nel caso in cui una infinitesima variazione del prezzo comportasse una grandissima variazione della quantità domandata si avrebbe una curva di domanda completamente elastica con un coefficiente di elasticità molto vicino all’infinito (Ed = ∞). Nel caso in cui una variazione del prezzo non avesse nessun effetto sulla variazione della quantità domandata si avrebbe una curva di domanda completamente anelastica con una elasticità pari a zero (Ed = 0).

A) Domanda elastica B) Domanda anelastica PP

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Q

 

 

C) Domanda completamente elastica D) Domanda completamente anelastica PP

 

 

 

 

 

Q

Figura 1.8 Differenti curve di domanda

Q

 

Non bisogna comunque commettere l’errore di scambiare la pendenza di una curva con la sua elasticità. La pendenza indica il rapporto tra la variazione assoluta della quantità e la variazione assoluta del prezzo. L’elasticità indica invece il rapporto tra la variazione percentuale della quantità e la variazione percentuale del prezzo. Una curva di domanda può avere in ogni tratto la stessa pendenza (in questo caso avremo una retta) ma nei differenti tratti l’elasticità sarà differente. L’elasticità è dunque un indicatore che non si riferisce all’intera curva di domanda ma si riferisce ai vari tratti di questa. Le prime due curve disegnate nella figura 1.8 anche se dalla forma possono essere generalmente definite come elastica ed anelastica hanno una differente elasticità nei loro vari tratti. Per essere precisi, si può dire ad esempio che la curva della figura 1.8.A è nel complesso elastica, in quanto i tratti elastici sono maggiori di quelli anelatici, ma la sua elasticità varia da tratto a tratto. Solo nei due casi limite disegnati nelle figure 1.8.C e 1.8.D l’elasticità è sempre uguale in ogni tratto e dalla pendenza della curva si può dedurre la sua elasticità.

Un esempio chiarirà meglio il concetto di elasticità della domanda. Nel grafico 2.8 è illustrata una curva di domanda la cui pendenza non varia. Supponiamo che in principio il prezzo sia di 9.000 con una quantità domandata pari a 100 unità (punto A). Se il prezzo scendesse a 7.000 si avrebbe una nuova quantità domandata pari a 300 unità (punto B).

P

10.000 9.000

8.000

7.000

6.000

5.000 4.000

3.000 2.000 1.000

0
0 100 200 300 400 500 600 700 800 900 1.000

Figura 2.8 Elasticità della domanda

 

 

 

 

   

A

               
      Ed >1          
       

B

           
                   
           

C

Ed = 1    
                   
              D    
                Ed <1
                   

E

                   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Q

Nel tratto AB la curva di domanda è molto elastica in quanto la variazione percentuale della quantità è molto più grande della variazione percentuale del prezzo. La quantità passa infatti da 100 a 300, con una variazione assoluta di 200 unità e una variazione percentuale del 100%. La variazione percentuale del 100% si ottiene dal rapporto tra la variazione assoluta di 200 ed il livello della quantità che si prende in considerazione che è la media tra il numero iniziale di 100 ed il numero finale di 300. In sintesi si ha che la variazione percentuale della quantità è uguale a 200/200 = 1 = 100%. Il prezzo subisce una variazione assoluta di 2.000 ed una variazione percentuale del 25%. La variazione percentuale del 25% si ottiene dal rapporto tra la variazione assoluta di 2.000 ed il livello del prezzo preso come riferimento che è la media tra 9.000 e 7.000. Si ha infatti che 2.000/8.000 = 0,25 =25%.

Nel tratto AB l’elasticità della domanda è uguale a 100%/25% = 1/0,25 = 4, e si ha che la variazione percentuale della quantità domandata è pari a quattro volte la variazione percentuale del prezzo. In altri termini si ha che una diminuzione del prezzo del 25% ha provocato un aumento del 100% della quantità domandata.

Nel tratto di curva DE il discorso si inverte in quanto la curva di domanda è in quel tratto anelastica. Supponiamo che il prezzo iniziale fosse di 3.000. La quantità domandata sarebbe di 700 (punto D). Se il prezzo passasse da 3.000 a 1.000 la quantità passerebbe da 700 a 900. La quantità subirebbe una variazione percentuale del 25% (200/800 = 0,25) mentre il prezzo subirebbe una variazione percentuale del 100% (2.000/2.000 = 1). L’elasticità della domanda nel tratto CD è infatti pari a 0,25 ovvero a 1/4 (0,25/1 = 0,25).

Si può facilmente verificare che al di sopra del punto C la curva di domanda è elastica (Ed > 1) e al di sotto di tale punto diventa anelastica (Ed < 1). Ad esempio, il tratto BC continua ad essere elastico mentre quello CD è anelastico.
Nel punto C la curva di domanda ha una elasticità unitaria (Ed = 1) in quanto una variazione percentuale infinitesima del prezzo comporta una pari variazione percentuale della quantità.

L’elasticità della domanda è un indicatore che ha un legame molto stretto con i ricavi totali dell’impresa. La curva di domanda di un bene indica infatti quale sarà la quantità che ad un dato prezzo i consumatori richiederanno e che di conseguenza l’imprenditore riuscirà a vendere sul mercato.

Si intuisce facilmente che quando la variazione percentuale della quantità è superiore alla variazione percentuale del prezzo i ricavi totali dell’impresa aumentano.
Supponiamo che la curva ABCDE del grafico 2.8 sia la curva di domanda che si trova di fronte un’impresa. Ad un prezzo di mercato di 9.000 l’impresa venderà 100 unità con un ricavo totale pari a 900.000 (9.000 * 100 = 900.000). Ricordiamo infatti che il ricavo totale si ottiene moltiplicando la quantità venduta per il prezzo. Ma se il prezzo scendesse da 9.000 a 7.000 l’impresa venderebbe 300 unità con un ricavo totale pari a 2.100.000 (7.000 * 300 = 2.100.000).

E’ facilmente verificabile, confrontando i numeri della figura 2.8, che nei tratti in cui l’elasticità della domanda è superiore ad uno, una riduzione del prezzo con il conseguente aumento della quantità provocherà un aumento dei ricavi totali.
Nei tratti in cui l’elasticità è inferiore ad uno, si avrà che una riduzione del prezzo produrrà una riduzione dei ricavi totali, in quanto l’aumento percentuale della quantità sarà minore rispetto alla riduzione percentuale del prezzo.

Nella figura 3.8 è illustrata la relazione tra l’elasticità della domanda e i ricavi dell’impresa. Nella parte superiore della figura è rappresentata la curva di domanda dell’impresa con la relativa curva del ricavo marginale. Nella parte inferiore sono rappresentati i ricavi totali che l’impresa sperimenta in seguito alla vendita delle quantità sul mercato. Nel tratto superiore della curva di domanda l’elasticità è superiore ad uno (Ed > 1). Una riduzione del prezzo in quel tratto consentirebbe all’impresa di incrementare i ricavi totali, in quanto l’aumento percentuale della quantità sarebbe maggiore della riduzione percentuale del prezzo.

Si vede dalla figura che nel tratto in cui l’elasticità è maggiore di 1, i ricavi totali crescono ed il ricavo marginale anche se è decrescente è positivo.
Nel tratto inferiore della curva di domanda l’elasticità è inferiore ad uno (Ed > 1). Una riduzione del prezzo in quel tratto provocherebbe una riduzione dei ricavi totali dell’impresa, in quanto l’aumento percentuale della quantità sarebbe minore della riduzione percentuale del prezzo.

P

 

 

 

 

 

Ed > 1
Ed = 1

Ed < 1

Q

Q

 

 

 

 

 

 

RT

Rm

RT

 

 

 

 

 

 

Figura 3.8

Relazione tra elasticità e ricavi dell’impresa

Nel tratto in cui l’elasticità è inferiore ad uno, i ricavi totali decrescono ed il ricavo marginale è negativo. Nel punto in cui l’elasticità è uguale ad uno (Ed = 1) i ricavi totali raggiungono il punto massimo ed il ricavo marginale è uguale a zero.
Il ricavo marginale indica infatti l’incremento di ricavo generato dalla vendita di una unità addizionale di prodotto. Quando il ricavo totale cresce il ricavo marginale è positivo, anche se come abbiamo visto nel capitolo 5 è sempre decrescente. Mentre quando i ricavi totali iniziano a decrescere, il ricavo marginale diventa negativo, in quanto la vendita di unità addizionali di prodotto comporta la riduzione dei ricavi totali.

L’elasticità della domanda è un indicatore molto importante per il marketing strategico delle aziende. Infatti, le decisioni sulle riduzioni dei prezzi dipendono in grande misura dall’elasticità della domanda. Un’impresa che si trova di fronte ad una domanda molto elastica avrà convenienza a ridurre il prezzo in quanto si aspetterà un aumento percentuale della quantità superiore alla riduzione percentuale del prezzo. Un impresa che al contrario si trova in un mercato dove la domanda è anelastica avrà invece convenienza ad aumentare i prezzi in quanto si aspetterà una riduzione percentuale della quantità minore rispetto all’aumento percentuale del prezzo. Quando dunque la domanda è elastica le imprese tendono a ridurre il prezzo, quando invece la domanda è rigida le imprese tendono a mantenere costante il prezzo o ad aumentarlo.

L’elasticità della domanda oltre ad essere un elemento molto importante ai fini delle decisioni dei manager, è un elemento che ha molta influenza sulla struttura dei regimi di mercato. Abbiamo visto nel capitolo precedente che un regime di oligopolio può presentarsi in varie forme. Quando le poche imprese sul mercato hanno convenienza a raggiungere accordi il regime può diventare collusivo, nel caso contrario, le imprese possono anche dar vita ad un accesa guerra dei prezzi come nel caso del settore delle telecomunicazioni. L’esperienza aziendale insegna che il comportamento delle imprese è strettamente legato alla struttura della domanda. Quando la domanda è anelastica, una guerra dei prezzi costituirebbe solo una pura follia per le aziende che non farebbero altro che perdere profitti. Abbiamo accennato al settore dei trasporti aerei dove, essendo la domanda piuttosto anelastica, le imprese hanno tutta la convenienza a mantenere elevati i prezzi, anche per mezzo di taciti accordi. Quando invece la domanda è molto elastica, come nel caso del settore delle telecomunicazioni, le imprese, per conquistare quote aggiuntive di mercato tendono ad intraprendere una graduale riduzione dei prezzi entrando in concorrenza.

 

 

1.9 L’utilità marginale

Nel primo capitolo abbiamo affrontato il tema della domanda di un bene, ed abbiamo visto che questa è rappresentabile con una curva con inclinazione negativa. In questo capitolo cercheremo di dare una spiegazione più approfondita prendendo in considerazione il possibile comportamento del consumatore.

Introduciamo il tema con un semplice esempio, domandandoci quale possa essere il valore di un bicchiere d’acqua. Per un consumatore che vive in una grande metropoli il valore può essere nullo, mentre per il viandante assetato che vaga nel deserto può essere pari a tutte le ricchezze del mondo. E’ possibile dunque che un bicchiere d’acqua abbia un valore compreso tra zero ed infinito? Quale è la differenza nei due casi? Il valore del bene è dato dall’utilità che in quel momento procura al consumatore. Questa stessa è determinata dalla sazietà del consumatore nei confronti del bene. Infatti, per il viandante nel deserto il primo bicchiere d’acqua avrà un valore infinito mentre il ventesimo avrà un valore prossimo allo zero, poiché l’uomo sarà già abbondantemente sazio.

Il valore che il consumatore assegna al bene dipende dunque dal suo grado di utilità. Questa come abbiamo in precedenza detto dipende dalla sazietà del consumatore che dipenderà ovviamente dal numero di unità consumate.

0

TABELLA 1.9

Introduciamo ora il concetto di utilità marginale. Questa indica l’utilità addizionale apportata da una unità in più di bene consumata. L’utilità marginale

 

 

 

Quantità

 

 

Utilità

marginale

Utilità

totale

 

1

 

5

 

5

 

2

0 4

 

0 9

 

 

3

0 3

 

0 12

 

 

 

 

4

0 2

 

0 14

 

5

 

0

1

 

0

15

 

 

 

6

0 0

 

0 15

 

 

 

 

 

 

 

può essere anche definita come l’incremento dell’utilità totale sperimentata dal consumatore in seguito ad ogni unità addizionale di bene consumata. Ut

 

 

 

 

Ut

 

 

 

 

 

Q

 

Um

 

 

 

Um

 

 

Figura 1.9 Utilità totale e marginale

Nella tabella è illustrata l’utilità marginale e totale di un dato consumatore in relazione al consumo di un determinato bene, ad esempio Baci Perugina. Supponiamo di dover misurare l’utilità giornaliera di un consumatore qualsiasi in relazione al consumo di Baci Perugina. Il primo Bacio darà al consumatore una utilità marginale di 50. Il secondo Bacio, per il principio di sazietà, avrà una utilità inferiore, ad esempio 40 e l’utilità totale sarà di 90 (50+40). Dopo il quinto Bacio, il consumatore si potrebbe trovare in uno stato di indifferenza in quanto sarà oramai già sazio. Si suppone in questo semplice caso che il sesto Bacio abbia una utilità marginale pari a

Q

zero. Oltre il sesto Bacio infatti l’utilità marginale sarà negativa in quanto dopo una certa quantità il consumatore si potrebbe sentire male o avrebbe nausea. L’utilità marginale è rappresentabile con una curva decrescente dove all’aumentare della quantità consumata l’utilità dell’ultima unità è via via minore.

Nella figura 1.9 sono illustrate le curve dell’utilità totale e dell’utilità marginale. L’utilità totale (Ut) cresce al crescere delle unità del bene consumato. Ma la crescita è meno che proporzionale in quanto le unità di bene addizionali hanno una utilità marginale decrescente. Quando l’utilità marginale raggiunge lo zero, la curva dell’utilità totale raggiunge il suo punto massimo. Infatti, oltre una certa quantità di bene in poi (nel nostro caso sei ) l’utilità marginale delle unità addizionali è negativa e di conseguenza l’utilità totale inizia a decrescere.

2.9 La curva di domanda di un bene

La domanda di un bene dipenderà dunque dall’utilità che il bene arreca al consumatore. Supponiamo che il prezzo dei baci perugina fosse 30. L’acquisto del primo bacio sarebbe per il consumatore conveniente, in quanto quest’ultimo pagherebbe 30 e riceverebbe un’utilità pari a 50. Anche l’acquisto del secondo Bacio sarebbe conveniente in quanto il consumatore pagherebbe sempre 30 ricevendo un’utilità pari a 40. L’acquisto del quarto e del quinto Bacio non sarebbero invece convenienti in quanto questi avrebbero una utilità marginale inferiore al prezzo. Il consumatore domanderà Baci Perugina fino a quando questi gli daranno una utilità marginale uguale al prezzo. La formula che segue indica la condizione di equilibrio del consumatore nei confronti del bene consumato.

UM = P

Nel nostro semplice caso, ad un prezzo di 30 il consumatore domanderebbe tre Baci Perugina. Ma se il prezzo fosse 20, la quantità domandata sarebbe di quattro Baci, mentre se il prezzo fosse 10 la quantità domandata sarebbe di cinque Baci.
La curva di domanda del bene sarà dunque determinata dalla curva dell’utilità marginale del consumatore. In altri termini, la curva di domanda del bene è costituita dalla curva dell’utilità marginale del consumatore.

3.9 L’equilibrio del consumatore

Nei paragrafi precedenti abbiamo studiato il comportamento del consumatore in relazione ad un singolo bene. Supponiamo che i beni siano ora due, che per semplicità chiamiamo A e B. Il consumatore, in base al consumo di determinate quantità di tali beni, riceverà determinati livelli di utilità o soddisfazione. Siamo ora in grado di affrontare il tema delle curve di indifferenza. Queste indicano le diverse combinazioni dei due beni il cui consumo congiunto comporta un uguale livello di utilità per il consumatore.

Nella figura 2.9 è rappresentata una curva di indifferenza (U2) relativa ad un livello di utilità pari ad esempio a 200. Tutti i punti sulla curva indicano le diverse combinazioni dei due beni il cui consumo comporta una utilità pari a 200. Nell’esempio del grafico si ha che dieci unità del bene A e una del bene B (punto A) hanno la stessa utilità di sette unità del bene A e di due del bene B (Punto B) o alternativamente di quattro unità del bene A e di quattro del bene B (punto C). In altri termini, consumare una delle cinque combinazioni descritte è completamente indifferente per il consumatore in quanto il suo livello di utilità non varia; da qui deriva il nome di curva di indifferenza.

 

QA
A

 

 

 

10 9

 

 

                   
                   
     

B

             
                   
                   
        C          
                   
              D    
                  E
                 

 

 

 

8 7

6

5

4

3

2

1

U2

QB

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Figura 2.9 Curva di indifferenza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’andamento della curva di indifferenza è data dal rapporto di sostituzione dei beni. La curva di indifferenza indica in effetti le possibili sostituzioni che può operare il consumatore al fine di mantenere invariata la sua utilità. Ad esempio nel passaggio dalla combinazione A alla combinazione B il consumatore sostituisce tre unità del bene A (da 10 a 7) con una del bene B (da 1 a 2). Il rapporto di sostituzione è dunque pari a tre. In altri termini il consumatore, se si trova nel punto A e vuole passare al punto B, mantiene invariato il suo livello di utilità se si priva di tre unità del bene A per ottenerne una del bene B.

La pendenza del tratto di curva AB, che coincide con la pendenza della retta passante per i due punti, è uguale a tre. Una vecchia ma sempre buona regola è quella di definire la pendenza di una retta come il rapporto tra altezza (nel nostro caso tre) e percorso (nel nostro caso uno). Nel passaggio dalla combinazione B alla combinazione C, il consumatore sostituisce tre unità del bene A con due del bene B. Il rapporto di sostituzione nel tratto BC è pari ora a 3/2 = 1,5 e non più pari a 3. Si vede chiaramente infatti che la pendenza del tratto BC è inferiore a quella del tratto

AB. Nel passaggio dalla combinazione C alla combinazione D, il consumatore sostituisce due unità del bene A con tre del bene B, il rapporto di sostituzione del tratto CD è uguale a 2/3 = 0,66. Nel tratto DE il rapporto di sostituzione è invece pari a 1/3 = 0,33. La pendenza della curva nei suoi differenti tratti è dunque data dal rapporto di sostituzione tra i due beni che viene anche definito Saggio Marginale di Sostituzione o SMS. Questo come abbiamo visto varia da tratto a tratto e da punto a punto. Infatti il punto A sulla curva ha una pendenza superiore ad esempio al punto B. Si ricorda che la pendenza di una curva in un punto è misurata dalla pendenza della tangente passante per quel punto.

In questa analisi della curva di indifferenza possiamo anche verificare un aspetto molto significativo. Nel tratto AB il valore del bene B è tre volte quello del bene A, infatti il rapporto di sostituzione è pari a tre in quanto il consumatore scambierebbe tre unità di A con una di B. Nel tratto DE il valore del bene B è invece pari ad un terzo del valore del bene A, infatti il rapporto di sostituzione è un terzo in quanto il consumatore scambierebbe una unità del bene B per ottenerne una del bene A.

Quale è la differenza nelle due situazioni? E perché il valore del bene B prima è molto alto rispetto a quello del bene A e poi la situazione si inverte? Il valore del bene B diminuisce in seguito all’aumentare del consumo di questo. Nel paragrafo precedente abbiamo studiato che l’utilità marginale di un bene decresce all’aumentare del consumo di questo, nel nostro caso all’aumentare del consumo del bene B il rapporto di scambio con il bene A tende progressivamente a peggiorare. Nelle combinazioni A e B il consumo del bene B è inferiore rispetto al consumo del bene A, di conseguenza il bene B avrà un valore relativamente superiore. Nei punti D e E il consumo di B è invece superiore al consumo di A, di conseguenza il valore di B è relativamente inferiore. Questo spiega la ragione per la quale la curva di indifferenza ha una forma simile alla curva ABCDE. La curva di indifferenza si presenta infatti come una curva a “forma di conca”. Raramente una curva di indifferenza si presenta come una retta. In questo caso si avrebbe che l’utilità marginale dei due beni anziché essere decrescente è costante.

Il saggio marginale di sostituzione in termini analitici può essere espresso dalla seguente formula:

SMS = DqA/DqB = UMB/UMA

Il saggio marginale di sostituzione indica infatti il rapporto tra la variazione del bene A e la variazione del bene B. Tale variazione deve essere proporzionale ai livelli di utilità dei due beni in maniera inversa. Infatti, nel tratto AB la variazione del bene A rispetto a quella del bene B è pari a 3, questo significa che l’utilità di A è un terzo di quella di B, in quanto il consumatore mantiene invariata la sua utilità se si priva di tre unità di A per ottenerne una di B. Di conseguenza si ha che l’utilità di B è tre volte quella di A ovvero che il rapporto tra l’utilità marginale di B e quella di A è uguale a 3. Ne consegue che il SMS è uguale al rapporto tra l’utilità marginale dei due beni.

Ma non esiste solo una curva di indifferenza; esistono infatti tante curve di indifferenza quanti sono i livelli di utilità. Nella figura 3.9 è rappresentata una famiglia di curve di indifferenza, ciascuna con un determinato livello di utilità. Le curve più alte rappresentano ovviamente livelli più alti di utilità in quanto questi sono raggiungibili con maggiori quantità dei due beni.

Se non esistessero vincoli, il consumatore consumerebbe quella combinazione di beni con il più elevato livello di utilità. Ma ogni consumatore ha un vincolo costituito dal suo portafoglio. Infatti, il consumo è sempre limitato dalla disponibilità di denaro che si ha.

QA 10

9 8

 

 

 

 

 

                   
                   
                   
                   
                   
               
                   
                   
                   
                  U1

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7
6
5
4
3
2
1 U2 0

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

Figura 3.8 Famiglia di curve di indifferenza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

U4 U3

QB

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Complichiamo l’analisi introducendo una retta che indica appunto il vincolo che ha il consumatore in base al suo reddito. La retta di bilancio o retta della spesa indica appunto tutte le combinazioni dei due beni che è possibile acquistare con un determinato livello di reddito. L’inclinazione di tale retta dipende dal livello dei prezzi dei due beni. Supponiamo che il nostro consumatore abbia un reddito pari a 80, e che questo di conseguenza sia il suo vincolo di bilancio nel consumo dei due beni. Se il prezzo di entrambi i beni fosse pari a 10, questo potrebbe comprare 8 unità del bene A e nessuna del bene B (punto a) o in alternativa 8 unità del bene B e nessuna del bene A (punto e). Ma potrebbe anche comprare ad esempio 4 unità del bene A e quattro del bene B (punto c) o in alternativa sei di uno e due dell’altro (punti b e d). Nella figura 4.9 è rappresentata appunto una retta (R2) che indica le diverse combinazioni possibili di acquisto dei due beni che il consumatore può ottenere con un reddito di 80 ed i prezzi dei due beni pari a 10. Tale retta è chiamata retta di bilancio o retta della spesa in quanto indica tutte le combinazioni di beni acquistabili dal consumatore dati il reddito ed il livello dei prezzi. Ma esisteranno tante rette di bilancio quanti sono i livelli del reddito disponibile. Nella figura 5.9 è rappresentata una famiglia di rette di bilancio ciascuna con un suo specifico livello di reddito. Ad esempio, se il consumatore disponesse di un reddito pari a 60, potrebbe comprare 6 unità del bene A o 6 del bene B e si troverebbe sulla retta di bilancio R1. Se invece disponesse di un reddito pari a 100 si troverebbe sulla retta di bilancio R3.

 

QA

10 9 8

7 6 5 4 3 2 1

00 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

QB

 

 

                   
 

a

                 
                   
                   
   

b

               
                   
      c            
                   
          d   R2    
                e  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 4.9 Retta di bilancio

QA

10 9

8 7

6

5

4

3

2

1 0

Figura 5.9 Famiglia di rette di bilancio

 

 

 

 

 

 

 

                   
                   
                   
                   
                   
               
                   
                R3  
              R2    
            R1      

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

QB

 

 

 

Abbiamo dunque visto che il consumatore, nel scegliere la combinazione che gli comporta la massima utilità, ha un vincolo costituito dal reddito di cui dispone. In assenza di questo, egli cercherebbe di consumare la quantità di beni che gli assicura il livello più elevato di utilità. Sul piano grafico il consumatore, in assenza di vincoli di bilancio, cercherebbe di raggiungere la curva di indifferenza più alta. In quanto curve più alte rappresentano livelli più elevati di utilità. Ma sfortunatamente questo non è sempre possibile per via del vincolo rappresentato dal bilancio. Il consumatore ha una limitazione costituita dalla retta di bilancio che gli indica tutte le combinazioni che può raggiungere con un determinato livello di reddito. Infatti, tutti i punti alla destra della retta di bilancio rappresentano combinazioni non raggiungibili con quel determinato livello di reddito. Il consumatore si deve dunque accontentare di scegliere una combinazione presente sulla retta del bilancio. Ma quest’ultimo sceglierà la combinazione che gli assicura il maggior livello di utilità. Al livello grafico tale combinazione si ottiene in corrispondenza del punto di tangenza delle curve di indifferenza con la retta di bilancio. Infatti, essendoci infinite curve di indifferenza, ogni punto della retta di bilancio è intersecato da una curva di indifferenza. Il problema si risolve trovando il punto di intersezione tra retta di bilancio e curva di indifferenza più alta. Questo è il punto di tangenza.

QA

10 9

8 7 6 5 4 3

2 U3 1 U2

 

 

 

 

y

x

 

 

T

R2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

0 U1 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

QB

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 6.9 Equilibrio del consumatore

Nella figura 6.9 è illustrata la condizione di equilibrio del consumatore. La soluzione più conveniente è rappresentata dal punto T, in quanto l’utilità di quella combinazione è superiore all’utilità di tutte le altre combinazioni. Nel punto di tangenza passa una curva di indifferenza più alta rispetto a quelle che passano per tutti gli altri punti della retta di bilancio. Per convincerci che il punto di tangenza tra retta di bilancio e curve di indifferenza indica la combinazione migliore guardiamo la figura.

Se il consumatore scegliesse qualsiasi altra combinazione sulla retta di bilancio sperimenterebbe un livello di utilità inferiore. Ad esempio se scegliesse il punto y al posto del punto T avrebbe un’utilità di 100 invece che di 200, in quanto in quel punto passa una curva di indifferenza (U1) con utilità pari a 100 mentre nel punto T passa una curva di indifferenza (U2) con utilità pari a 200. Si può facilmente verificare che per qualsiasi altro punto della retta di bilancio passa una curva di indifferenza più bassa rispetto alla curva U2 che rappresenta il massimo livello di utilità che il consumatore può raggiungere con la sua retta del bilancio. Il punto x indica invece una combinazione che darebbe al consumatore una utilità pari a 300 (U3), ma tale combinazione è irraggiungibile con il vincolo di bilancio attuale del consumatore.

Ne consegue che la condizione di equilibrio del consumatore si ottiene in corrispondenza della tangenza delle curve di indifferenza con la retta di bilancio. La condizione di equilibrio può anche essere interpretata in chiave analitica. Nel punto di tangenza la pendenza della curva di indifferenza è uguale alla pendenza della retta di bilancio. Abbiamo in precedenza detto che la pendenza di un punto su una curva è dato dalla pendenza della tangente. Ma la tangente del punto T sulla curva di indifferenza coincide proprio con la retta del bilancio la cui pendenza è uguale al rapporto tra i prezzi. Ne consegue che il saggio marginale di sostituzione, che indica la pendenza della curva di indifferenza, è uguale al rapporto tra i prezzi dei due beni, che rappresenta la pendenza della retta di bilancio. E si ha dunque che:

SMS = UMb/UMa = Pb/Pa L’uguaglianza del rapporto tra le utilità marginali ed i prezzi può anche essere

espressa in altro modo senza che il risultato cambi:

UMb/Pb = UMa/Pa

L’ultima formula indica che il consumatore si trova in equilibrio quando le utilità marginali ponderate dei due beni sono uguali. Per utilità marginale ponderata si intende il rapporto tra utilità marginale e prezzo del bene. In altri termini il consumatore si trova in equilibrio quando l’utilità marginale di un bene divisa per il suo prezzo è uguale all’utilità marginale dell’altro bene divisa per il relativo prezzo. Tale eguaglianza si realizza quando il consumatore richiede i due beni fino al punto in cui le utilità marginali sono uguali ai rispettivi prezzi. Nella formula sottostante è appunto illustrata la condizione di equilibrio nel consumo dei due beni che come si vede è la stessa di cui abbiamo discusso nel paragrafo 3.8 relativamente al consumo di un singolo bene. Anche nel caso di tre o più beni l’equilibrio è dato dall’uguaglianza dell’utilità marginale con il relativo prezzo del bene.

4.9 Costruzione della curva di domanda attraverso le curve di indifferenza

A partire dalle curve di indifferenza è possibile costruire la curva di domanda di un bene. Abbiamo visto nei primi paragrafi di questo capitolo che la curva di domanda coincide con la curva dell’utilità marginale di un bene. In questo paragrafo studieremo un altro metodo per ricavare la curva di domanda partendo dalla costruzione grafica delle curve di indifferenza.

QA

10 9 8 7 6 5 4 3 2 1

0
0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

QB

Figura 7.9 Variazione del livello dei prezzi e nuovo equilibrio

Ritorniamo al grafico 6.9 prendiamo in considerazione ad esempio il bene B. Ad un prezzo di 10 il nostro consumatore acquista quattro unità del bene B in quanto l’equilibrio si trova nel punto T.
Ma cosa succede se il prezzo del bene B aumentasse mentre il reddito rimanesse invariato? La retta del bilancio avrebbe ora una forma differente. Se infatti il prezzo del bene B passasse da 10 a 20 la retta del bilancio assumerebbe la forma descritta nella figura 7.9 passando da R2 a R2’. E’ come se la retta del bilancio ruotasse verso sinistra. La nuova retta del bilancio indicherebbe che con un reddito di 80 il consumatore potrebbe comprare 8 unità del bene A o 4 unità del bene B e non più otto. Il nuovo punto di equilibrio sarebbe ora rappresentato dal punto T’ con un consumo del bene B pari a una sola unità. Infatti, all’aumentare del prezzo del bene, diminuirebbe la quantità del bene che assicurerebbe l’equilibrio per il consumatore. Con gli stessi dati possiamo tracciare una curva di domanda del bene B dove sugli assi si misurano prezzi e quantità.

Nella figura 8.9 è rappresentata la curva di domanda del bene B (DB) costruita attraverso i punti di equilibrio ottenuti nel grafico della figura 7.8. Ad un prezzo di 10 la quantità richiesta del bene B sarà di quattro unità (punto T), ad un prezzo di 20 la quantità richiesta del bene B sarà di una unità (punto T’).

 

 

 

 

 

 

                   
                   
                   
                   
T’                  
         

T

         
                   
                   
               

R2

   
        R2’          

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PB

25

20

15 10

5

0
012345

QB

 

 

  T’      
       
        T
         

DB

         

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Figura 8.9 Curva di domanda del bene

 

 

10.1 La rivoluzione Internet e la New Economy

All’inizio di questi appunti abbiamo affermato che il capitalismo non è eterno. Prima o poi sarà sostituito da un altro modo di produzione così come lo sono stati i precedenti. Ma quando ciò avverrà nessuno lo può sapere; forse è ancora un giorno molto lontano nel futuro o forse già qualcosa si muove negli ingranaggi del sistema. Fatto sta che i cambiamenti che l’economia ha subito negli ultimi anni spingono i più futuristi ad intravedere fin d’ora modelli alternativi. Anche in virtù delle ultime crisi finanziarie che hanno messo in discussione le basi stesse del capitalismo

Ma vediamo quali sono stati e quali saranno questi cambiamenti. In primo luogo è stato messo in discussione il concetto di proprietà. Questa non si riferisce più ad un singolo imprenditore. Oggi una azienda può avere migliaia di proprietari in seguito alla distribuzione del pacchetto azionario. Lo sviluppo della finanza on line (vendita e acquisto di azioni su Internet) sta facendo lievitare in maniera esponenziale il numero di investimenti e di investitori nei mercati finanziari rendendo sempre più semplice e flessibile l’ingresso ai mercati.

Fra pochi anni anche il piccolo risparmiatore potrà possedere un pacchetto azionario, seppur ridotto, composto da numerosi titoli.
Il secondo grande cambiamento è la graduale valorizzazione e centralizzazione del lavoro specializzato rispetto al valore del capitale finanziario. Oggi, in seguito alla globalizzazione e alla facilità con la quale i capitali circolano sui diversi mercati, la disponibilità di risorse finanziarie diventa sempre meno vincolante. C’è molta più offerta di capitale di quanto non possa essere la domanda. Il lavoro specializzato diventa quindi in molti casi il reale fattore critico di sviluppo

Oggi le più grandi imprese non sono gestite dai diretti proprietari ma sono sotto il controllo di manager e tecnici.
Altro fattore chiave in questa nuova specifica fase del sistema economico appare più che mai l’innovazione tecnologica. Il settore delle telecomunicazioni ne è un esempio lampante. È sotto gli occhi di tutti la guerra che si fanno le imprese al fine di presentarsi sul mercato con servizi e prodotti sempre nuovi.

Ma l’innovazione tecnologica, quella che ha concorso a generare la New Economy, è il risultato di un lavoro specializzato. Il capitale e la disponibilità di risorse finanziare c’entrano molto poco con il processo di innovazione che dipende in primo luogo dall’attitudine umana di migliorare i processi di produzione ponendo ancora al centro dello sviluppo il capitale umano delle aziende.

Questa affermazione può essere comunque discutibile, in quanto in molti casi, la ricerca e lo sviluppo non possono essere indipendenti da un finanziamento.

Un altro grande cambiamento, ancora non molto visibile, è quello che sarà generato nei prossimi anni dal telelavoro. Oggi le attività produttive si svolgono ancora prevalentemente dentro uffici e fabbriche, ma con il raffinamento delle tecnologie attuali (videotelefonia, commercio elettronico, firma elettronica,…) sarà possibile che una buona parte di questi possa lavorare da casa o da postazioni alternative.

Sono proprio i gravi problemi di mobilità ed inquinamento che rendono necessari piani per lo sviluppo del telelavoro.

10.2 La società controllata

Questi cambiamenti stanno comportando graduali trasformazioni nel modo di produrre che mettono in discussione gli antichi concetti di proprietà e di impresa.
Ma questo non significa necessariamente che il sistema capitalista sia sull’orlo del tracollo. Secondo alcuni la New Economy non è altro che un modo come un altro che ha il capitalismo per riciclarsi e sopravvivere ai cambiamenti tecnologici. Infatti, innovazioni tecnologiche o meno la sostanza del sistema economico non cambia.

C’è sempre una classe dominante che detiene il controllo del potere economico e c’è una più numerosa classe che partecipa al processo di produzione dei beni e dei servizi anche se la situazione non è più quella descritta nel Capitale di Marx.
Lo sfruttamento ai danni della classe operaia non è più tanto evidente e marcato come nelle prime fasi del capitalismo; ma negare che non ci sia nessuna forma di controllo della forza lavoro è del tutto fuorviante. Tutti i sistemi economici si basano sul controllo e sullo sfruttamento della forza lavoro. Anche quelli che seguiranno al capitalismo. La differenza è nel diverso modo attraverso il quale la classe dominante controlla la forza lavoro. Il fatto che negli ultimi 100 anni le disuguaglianze si siano progressivamente attenuate non significa che il grado di sfruttamento e controllo venga meno.

Un esempio estremo chiarirà il problema. I diritti umani, una grande conquista della civiltà moderna, non sono stati altro che un mezzo con il quale il sistema capitalista si è potuto sviluppare. Lo sviluppo di un sistema di mercato come quello capitalista non ha potuto infatti prescindere dalla libertà dei consumatori. Infatti, il buon funzionamento del sistema capitalista è dipeso dalla crescita della produzione che in ultima istanza è stata incentivata dalla crescita della domanda di beni di consumo. Ma una così rapida crescita del consumo non sarebbe stata possibile nel caso in cui gli individui non avessero avuto la libertà di consumare.

Alla base di ogni cambiamento c’è sempre una logica di potere che tende a favorire la classe che in quel momento prende il potere economico. In questo caso, i diritti umani hanno favorito la nuova classe borghese capitalista a scapito della vecchia classe dominante latifondista che basava il suo potere sulla schiavitù degli individui. Se ci fosse stato un altro modo di produzione, diverso dal capitalismo, forse la conquista dei diritti umani non sarebbe mai avvenuta. Ma una volta che la nuova classe dominante ha liberato gli individui dai precedenti sistemi di controllo, ha dovuto per forza di cose trovare metodi alternativi per controllare la forza lavoro.

Nel modo di produzione antico il controllo della forza lavoro è legato alla soppressione degli individui attraverso il potere militare. Nel modo di produzione feudale il controllo avviene attraverso il fattore religione che plasma le menti degli individui e li costringe a lavorare senza riserva. Nel capitalismo il controllo avviene attraverso i mezzi di comunicazione.

E’ attraverso i mezzi di comunicazione che la classe dominante manda i suoi messaggi per controllare il processo produttivo. La produzione ed il consumo dei beni scambiati sul mercato non sono del tutto privi di controllo come in un primo momento si può credere. Il consumo di massa non è altro che il risultato di un bombardamento dei mezzi di comunicazione nei confronti degli individui, i quali non sono più liberi di scegliere autonomamente.

La moderna classe dominante, composta da politici, industriali ed intellettuali, controlla la produzione ed il consumo attraverso segnali di comunicazione, al pari di segnali stradali a caratteri cubitali che servono ad indirizzare il traffico. In altri termini, il mercato non è un luogo di scambio libero dove produttori e consumatori si incontrano per esprimere liberamente le loro preferenze, ma è un luogo controllato dai mezzi di comunicazione, i quali controllano il consumo e la produzione in maniera quasi ipnotica.

Ma la storia non è così semplice, infatti, il meccanismo di controllo e di sfruttamento della forza lavoro è ben più subliminale e raffinato di quanto si possa immaginare.
Gli uomini non agiscono esclusivamente in base a freddi calcoli che trovano semplice espressione in sintetiche formule od eleganti grafici, ma agiscono in base all’istinto, in base alla loro natura umana caratterizzata da bisogni e da aspirazioni.

10.3 Dalla New Economy alla Sex Economy

In questo paragrafo si tenta di spiegare una delle modalità attraverso la quale si realizza il controllo della forza lavoro nella moderna società capitalista.
Oggi, qualsiasi segnale di comunicazione ha una sua specifica allusione all’energia sessuale degli esseri umani. Basti vedere i programmi televisivi dei paesi più sviluppati o guardare gli spot pubblicitari, per non parlare poi degli effetti collaterali che questo bombardamento provoca quali violenza, frodi e qualsiasi altro tipo di ruberie.

La società e i sistemi economici sin dall’origine dei tempi si sono basate sul controllo e sullo sfruttamento dell’energia degli uomini, intesa come energia vitale mentale e fisica. La maggior parte degli economisti hanno sempre mostrato un grande interesse nell’elaborare teorie sulla nascita della società a partire dallo “stato di natura”.

In una fase precedente alla nascita della società gli uomini vivono infatti senza regole in uno stato bestiale. Non esiste proprietà privata e non esiste ricchezza, la produzione di beni è strettamente finalizzata al consumo.
La nascita della società con la conseguente nascita delle norme impone alla classe dominante di controllare e reprimere gli istinti umani e soprattutto di controllare la forza lavoro degli individui al fine di accumulare proprietà privata e ricchezza.

Ma la forza lavoro non è altro che la materializzazione dell’energia vitale degli uomini dove la componente sessuale costituisce il motore più grande.
Si noti che in questa sede per energia sessuale si intende la totalità dell’energia psicofisica umana. Questa come abbiamo detto genera la forza lavoro.

Il controllo della forza lavoro non può dunque prescindere dal controllo dell’energia sessuale, dalla sua repressione iniziale e dal suo collocamento nella struttura di produzione che in quel momento vige.
Nei modi di produzione precedenti l’energia veniva controllata con la forza militare o con la persuasione delle religioni. Oggi l’energia viene controllata con il bombardamento dei mezzi di comunicazione la cui violenza non è certo inferiore a quella della frusta.

Per controllare dunque la forza lavoro bisogna fare leva su ciò che la origina ovvero sull’energia sessuale attraverso i segnali di comunicazione.
In altri termini, il gioco consiste nel collocare nel verso giusto l’energia umana che in assenza di controllo seguirebbe le leggi di natura senza favorire l’una o l’altra classe. Il consumismo che costituisce il perno su cui si basa il potere e la ricchezza della classe dominante non è altro che un fenomeno originato dai segnali di comunicazione.

Il 90% dei beni che ci troviamo di fronte sono inutili al fine della realizzazione dei bisogni umani, sono beni che sono stati creati prima del loro effettivo bisogno. I segnali di comunicazione creano infatti falsi bisogni per stimolare il consumo, la produzione e di conseguenza la ricchezza.

La pubblicità non è altro che lo specchio del sistema economico, questa fa leva sull’energia sessuale degli uomini per creare dei bisogni che possono essere colmati solo con il consumo e la conseguente produzione, la quale genera accumulazione di ricchezza. Nella New Economy questo meccanismo di controllo attraverso i segnali di comunicazione è ancora più evidente rispetto alle fasi precedenti del sistema economico. Il sesso virtuale, una delle tante forme di repressione e controllo dell’energia sessuale, si sta sempre più sostituendo a quello reale favorendo la nuova classe dominante che baserà il suo potere sul controllo della rete (per rete si intende Internet). Il sesso virtuale non è altro che il risultato di una campagna di segnali di comunicazione che spingono le masse a spostare la loro attività dalla realtà fisica alla realtà virtuale contribuendo all’accumulazione della ricchezza di chi è a capo della rete.

Per concludere il paragrafo si ricorda che la parola più digitata sui motori di ricerca è Sex (fonte: Yahoo Internet Survey), da qui il termine di Sex Economy termine che indica il reale funzionamento della nuova economia.

10.4 Società perfette

Fin dall’origine dei sistemi economici i più grandi filosofi si sono cimentati nell’immaginare sistemi alternativi, il più delle volte definiti da loro stessi come “perfetti”, che non hanno mai smesso di affascinare economisti e scrittori di ogni tempo. L’alternativa storica al capitalismo è stata sempre costituita da sistemi socialisti o comunisti. Ma ci sono state nel corso della storia altri approcci che in questa sede vale la pena di discorrere rapidamente.

Un modo particolare di immaginare la società, che ha affascinato per secoli, è quello pensato da uno dei più grandi filosofi dell’antichità.
Platone, nella “Repubblica”, immagina un sistema nel quale il potere sia detenuto da una classe di filosofi. Questi, avendo il dono dell’istruzione non hanno bisogno di accumulare ricchezze materiali. Il filosofo, secondo Platone, ritenendo inutile la ricchezza materiale è l’unico in grado di perseguire il bene dell’intera collettività in quanto non sente il bisogno di perseguire obbiettivi personali costituiti dall’accumulazione della ricchezza privata.

La scelta tra benessere complessivo e benessere privato è dunque legata al livello di istruzione. Il filosofo è l’unico in grado di valorizzare il benessere dell’intera collettività in quanto è proprio l’istruzione stessa che lo eleva al di sopra della ricchezza materiale.Ma il ragionamento di Platone è ancora più attuale e geniale di quanto si possa pensare. Secondo quest’ultimo le forme di governo possibili sono tre: Monarchia (governo di uno solo), Aristocrazia (governo dei migliori) e Democrazia (governo del popolo). Nessuna delle tre forme in prima analisi è migliore delle altre. Entrambe sono valide se si mantengono allo stato puro. Infatti, ciascuna forma di governo ha la tendenza a degenerare nella sua forma negativa. La Monarchia degenera in Tirannide, l’Aristocrazia in Oligarchia (governo di pochi) e la Democrazia in Oclocrazia (governo delle masse).

La forma pura si mantiene se i regnanti, sia esso uno solo o siano un gruppo esteso, mantengono come obbiettivo prioritario lo sviluppo del benessere dell’intera collettività al posto del perseguimento dell’accumulazione della ricchezza privata.

Non interessa dunque la forma di governo in sé per sé ma l’obbiettivo del regnante. Altra opera che vale la pena di essere citata è quella di Tommaso Campanella. In “La città del Sole” Campanella immagina che esista un Paese dove gli uomini vivono e lavorano senza l’esistenza della proprietà privata. Tutti lavorano sei ore al giorno e nessuno rimane senza lavoro. Tutti possono disporre dei beni prodotti dalla collettività. A capo della collettività c’è una delegazione di tecnici e di anziani che via via stabilisce le modalità della produzione e del consumo. Nelle restanti ore del giorno gli uomini dell’isola si cimentano in attività sportive, artistiche e culturali in piena libertà. La giornata è composta infatti da dodici ore, le prime sei lavorative e le ultime sei dedicate allo svago. I giovani sono divisi in gruppi composti da maschi e femmine e durante l’adolescenza hanno la consuetudine di accoppiarsi una sera ogni tre secondo un ordine stabilito. Prima del matrimonio, che avviene in tarda età, gli accoppiamenti possono essere sempre diversi tra ragazzi e ragazze della stessa età. La pratica sessuale è infatti obbligatoria una sera ogni tre a seconda dei desideri congiunti di uomini e donne. Quest’ultime hanno una pari dignità e non esistono discriminazioni.
Lo spunto da cui parte Campanella per descrivere la società perfetta è la contestazione della pena di morte, che nel periodo in cui scrive Campanella era una pratica molto diffusa anche ai danni di chi rubava solamente del cibo. Secondo Campanella, una delle ragioni ultime dei crimini che vengono commessi all’interno delle società sarebbe il mal funzionamento delle società stesse. In una società come quella descritta, non si porrebbe nemmeno il problema, in quanto la diffusione del benessere sarebbe a vantaggio della totalità degli individui.
Visto che abbiamo citato il problema approfondiamo il tema. Pensiamo per un attimo alla pena di morte e alla funzione che ha questa in un sistema come quello capitalista. Pensiamo ora ad un sistema primitivo dove gli uomini fanno i sacrifici in nome degli Dei. Si potrebbe pensare che la cosa non differisca di molto. In tutti e due i casi l’uccisione di massa, quand’essa sia ingiustificata, ha un significato simbolico; tende a mantenere l’ordine ed il controllo della classe dominante. In America è piuttosto comprensibile il ruolo che ha la pena di morte ai fini del mantenimento del sistema capitalista, dato che questa in più della metà dei casi è ingiustificata, essendo determinata da enormi errori giuridici. E’ come se questa costituisse uno spettacolo tragicomico, capace di unire a livello emotivo la collettività di fronte ai segnali di comunicazione.
Per concludere il discorso dobbiamo sottolineare comunque il fatto che la maggior parte degli economisti danno poco valore a sistemi ideali o perfetti, in quanto questi, proprio per il fatto di essere utopici sono nella realtà difficilmente realizzabili ed ignorano di solito la realtà delle cose. In tale contesto, per terminare così come abbiamo iniziato, si può citare un episodio capitato a Talete, che come si sa è il primo filosofo della storia, più di 2.500 anni fa. Un giorno il filosofo, immerso nei suoi pensieri, camminava a testa in su per osservare le stelle, ma non si accorse di un pozzo sottostante e gli capitò di caderci dentro. Dopo diverse ore di prigionia all’interno del pozzo fu salvato dalla sua schiava che lo rimproverò severamente. Infatti, chi guarda le cose al di sopra di lui spesso non si accorge nemmeno delle cose che gli stanno sotto i piedi e finisce prima o poi per caderci dentro. Anche se poi Talete, una volta uscito dal pozzo, avrebbe fornito ai suoi contemporanei ed ai suoi posteri preziosi insegnamenti, partecipando in maniera saliente allo sviluppo della società umana.

 

 


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